varie, 21 febbraio 2002
DAMIANI
DAMIANI Damiano Pasiano di Pordenone (Pordenone) il 23 luglio 1922. Regista. Film: Il giorno della civetta (1968), Girolimoni, il mostro di Roma (1972). «Pasolini l’aveva definito ”un amaro moralista assetato di vecchie purezze”, Flaiano ”un milanese che sa parlare guardandoti negli occhi”, nonostante la sua rivendicata origine friulana. Ma Damiano Damiani [...] è un po’ così, una specie di ”apolide” fuori tempo massimo. Per la geografia ma anche per la critica. Nato a Pasiano di Pordenone nel 1922, friulano figlio di friulani, trascorre l’infanzia a Bologna e l’adolescenza a Milano per trasferirsi a Roma alla fine degli anni Cinquanta e seguire la sua passione per il cinema. Milano, però, dove ha lavorato come illustratore (la prima locandina del Piccolo Teatro, con Arlecchino e Pulcinella in un teatrino settecentesco, è opera sua), come disegnatore di fumetti per l’’Asso di picche” su cui esordiranno anche Hugo Pratt e Dino Battaglia, ma soprattutto diventando il regista di punta dei fotoromanzi di Bolero Film, gli deve aver lasciato un’impronta indelebile se Flaiano era disposto a riconoscergli quei tratti di orgogliosa immediatezza che riteneva peculiari del parlar franco meneghino. Difficile da incasellare è stato anche per il pubblico e per la critica. Certo, Damiani è il regista della prima serie della Piovra, che nel 1984 inchiodava 15 milioni di spettatori davanti alla tv. E prima, aveva firmato film popolarissimi come Quién Sabe (1966) con Gian Maria Volonté, Il giorno della civetta (1968) dall’omonimo romanzo di Sciascia, Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica (1971) e L’istruttoria è chiusa: dimentichi (1971) entrambi con un ottimo Franco Nero. Ma ”il più americano dei registi italiani”, come è stato definito, è anche l’autore di gialli fuori dalle regole come Il rossetto (1960) o Il sicario (1961), di commedie dure e insolite come La rimpatriata (1963, che regala a Walter Chiari il miglior ruolo della sua carriera), di riduzioni letterarie di insolita sensibilità come L’isola di Arturo (1962) o La noia (1963), o di una eccentrica, e laica, riflessione sul Cristo (L’inchiesta, 1986). Per prima cosa ”narratore di storie”, che rifugge dalle leziosaggini e dall’ornato (’il male di tutti nostri registi” sosteneva Flaiano) per privilegiare essenzialità ed efficacia, Damiani sconta il peccato - imperdonabile in anni di eventi e iperboli - di non essere ”abbastanza autore per le celebrazioni ufficiali e i restauri sponsorizzati, ma non abbastanza basso per godere di resurrezioni trash, cult o affini” scrive Alberto Pezzotta nel volume che gli ha dedicato. Amaro destino per chi ha inseguito tutta la vita un ”cinema medio” che sapesse conciliare buona fattura e rispetto del pubblico. E l’omaggio che gli stanno rendendo Udine e Pordenone è un primo, doveroso risarcimento verso un grande regista ma anche verso un’idea di cinema di cui sembra essersi persa la tradizione» (Paolo Mereghetti, ”Corriere della Sera” 23/10/2004). «[...] la sua idea di democrazia radicata in un rigore ”puritano” e d’ispirazione ”anglosassone” [...] Esordiente di quel volgere di stagioni che tra Cinquanta e Sessanta portarono nel cinema italiano una nuova generazione, con i primi titoli si trova al centro del ”boom” dalle cui euforie si tiene però a distanza - Il rossetto con Pietro Germi attore, La rimpatriata con un eccellente Walter Chiari troppo poco valorizzato dal cinema (’un comico con un grande tormento dentro”) - per poi passare attraverso il western (Quien sabe), approdare con Il giorno della civetta da Sciascia a un grande amore per la Sicilia (’la mafia non è solo questione di polizia, ma soprattutto di cultura”) e quindi ai massimi successi dei film, come L’istruttoria è chiusa: dimentichi e Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica, che all’inizio dei Settanta collocano il suo nome accanto a quelli di Petri e Rosi nel trionfo del cinema civile. Il risultato più popolare sarà il capitolo primo della televisiva Piovra, inventato negli anni Ottanta con lo sceneggiatore Ennio De Concini, che però non sarà lui a veder trasformato in saga dagli ascolti record: il ”moralismo” non gli fa godere gli effetti delle sue capacità. Burbero come suo stile, dice: ”Ho fatto una stupidaggine. Ho rifiutato di serializzare la storia di Cattani che secondo me era conclusa, mi sembrava meccanico. Potevo mettere via un po’ di soldi”. La grande varietà del suo cinema gli è stata rimproverata (’ma non mi importa”) e in fondo è sempre finito in mezzo alle correnti maggioritarie, solitario in una terra di nessuno, beneficiando meno di altri registi ”di sinistra” del suo contributo a un cinema di indagine e di critica, e non beneficiando affatto delle esaltazioni a posteriori di quel cinema di genere o di contaminazione tra ”alto” e ”basso” che ha illustrato con il suo professionismo ”americano” (’sono cresciuto con Chaplin, Capra e Ford”). [...] Proprio come Germi, altro grande solitario: due italiani atipici, come registi e non solo» (Paolo D’Agostini, ”la Repubblica” 17/1/2005).