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 2002  marzo 01 Venerdì calendario

Iverson Allen

• Hampton (Stati Uniti) 7 giugno 1975. Giocatore di basket. Dal dicembre 2009 coi Philadelphia 76ers, squadra in cui aveva già giocato dal 1996-2006, poi Denver Nuggets (2006-2008), Detroit Pistons (2008-2009), Memphis Grizzlies (2009). Nel 2001 Mvp della Nba, bronzo alle Olimpiadi di Atene. Detto “The answer” • «[...] Allen Iverson è piccolo, troppo piccolo per lottare con gente che potrebbe sollevare un Tir a mani nude. Chuck, così lo chiamavano da bambino, è uno di quelli che strappa applausi e abbracci anche a chi gli gioca contro, chi lo vede sfuggirgli da tutte le parti, senza poterlo nemmeno rallentare. Chuck è un fenomeno che sfida le leggi della fisica e del fisico. [...] una montagna, un’icona, un monumento. [...] Chuck pare sempre arrabbiato. È il suo modo di porsi nei confronti di un mondo che gli è sempre stato ostile. Perché lui non è il ragazzo copertina, quello che prende solo bei voti al liceo, che veste con la divisa della scuola, il classico cardigan con l’iniziale ricamata, stile Happy Days. È uno del ghetto, uno che viene dalla strada, uno che ha sempre qualcosa da dimostrare, per far capire che, se è arrivato fin qui, non ha rubato nulla. Così si lamenta con gli arbitri, passa per mangia allenatori, fa scelte spesso discutibili, litiga con i compagni. Ma lo fa solo perché vuole essere il migliore, perché vuole solo vincere. [...]» (Massimo Oriani, “La Gazzetta dello Sport” 1/5/2005) • «Nato e cresciuto tra case fatiscenti, ladri, spacciatori e assassini, senza un dollaro in tasca e saltando più di un pasto, scampato per un condono a una condanna a 15 anni di galera» (Marco Contini). A inizio stagione 2000/2001 fece molto discutere un suo disco rap, Non fiction, in cui sfoggiava testi tipo «Fai soldi, uccidi e fotti le puttane», «Fatti avanti con quel fare da gay e finirai a dormire coi vermi…», «Sei abbastanza uomo da tirar fuori una pistola, vediamo se lo sei abbastanza da premere il grilletto». Poche settimane dopo fu costretto a pubbliche scuse (“Repubblica” 21/4/2001) • «È il più grande idolo della comunità nera americana. È cresciuto scolandosi tutti i dischi di Afrika Bambaataa, è diventato un duro imparando la differenza che passa tra una pistola Glock ed una Smith and Wesson molto prima di conoscere i segreti di un pallone di cuoio. […] La sua maglietta numero 3 è la più venduta negli Usa. A Philadelphia pare non se ne trovi più neppure una. La solidarietà del ghetto tracima alla svelta. Miglior giocatore dell’Nba nella stagione 2000-2001, finalista con i suoi Sixers e talento assoluto, non gli basta il contratto “vitalizio” da 89 milioni di dollari firmato con la Reebok per tenersi lontano dai guai. Non è questione di soldi, non è questione di stato sociale. Se sei cresciuto con il crimine addosso, non sarà una doccia di miliardi a salvarti la vita. Oltre alla caterve di punti segnati, nell’almanacco di Iverson, spicca già una bella condanna a 5 anni di riformatorio per rissa aggravata e associazione a delinquere a scopo di intimidazione. Anno 1993: è rimasto dentro cinque mesi, poi lo hanno graziato. Ma non è cambiato. Cinque anni fa, quando già era un ricco e affermato professionista, venne condannato a 100 ore di lavoro sociale perché trovato in possesso di droga e di una pistola non registrata. Con una pistola in pugno è nel luglio 2002 in casa di un cugino. Cercava la moglie, che aveva precedentemente sbattuto fuori di casa mentre quella era nuda e spaventata. Atto di gelosia. Di follia. Se colpevole, rischia la galera. Il suo passato non gli verrà in soccorso» (Riccardo Romani, “Corriere della Sera” 13/7/2002) • «Per non fare mai le cose come ogni comune mortale, quando ha deciso che fosse arrivata l’ora di costituirsi, s’è fatto accompagnare al distretto di polizia di Gladwyne, Philadelphia, da almeno una decina di auto con amici e parenti a bordo. Appena fuori dalla sua casa da sceicco (valore: 2.5 milioni di dollari) un centinaio di reporter e fotografi ha bivaccato tutta la notte aspettando quel momento. Alle 5.30 della mattina (le 11.30 italiane), ha accontentato tutti, offrendo la sua versione dei fatti: “È tutta una montatura a opera di un bugiardo, la verità verrà fuori”. È incriminato di tentata aggressione, possesso d’arma non registrata, terrorismo e di un’altra decina di capi d’imputazione. Con lui anche lo zio Gregory Iverson. I due, dopo che Allen aveva cacciato di casa la moglie Tuwanna, nuda e spaventata, erano andati in cerca di lei. Il giocatore avrebbe fatto irruzione in casa del cugino con una pistola infilata nei pantaloni. Presentatosi al distretto a bordo di un furgoncino verde, ha trovato ad accoglierlo un’ispettrice di polizia, Donna Sykes: “Di una cosa potete star certi - ha detto l’agente - non godrà di alcun beneficio”. La stella dei Sixers è stata così sottoposta al procedimento di schedatura ed è stato messo in libertà su cauzione dopo circa otto ore al distretto. La prossima puntata sarà in corte dove si deciderà il suo destino: dopo essersi consultato col proprio avvocato Richard Sprague, si è dichiarato innocente di fronte al giudice» (Riccardo Romani, “Corriere della Sera” 17/7/2002) • «[...] uno dei 3-4 giocatori per cui vale la pena di vedere il basket del dopo Jordan. […] Belli, bravi e dannati. È di quella razza lì. Di quelli che ti fanno chiedere se sia proprio un caso che ormai tutti i tuoi amici d’infanzia siano crepati per un buco, una coltellata, una sparatoria; o se questa dannazione te la diano col certificato di nascita, una volta venuto al mondo sotto le cattive stelle del ghetto, senza la possibilità di evaderne dalla luce opaca, anche diventando una star. Nato dall’incontro fra una madre bambina e un padre che forse non si fermò più del tempo necessario al concepimento, ne spillò egualmente il talento. Il padre era un buon giocatore di basket, lui era di più, alla Bethel High School. Non si poteva decidere se fosse più bravo a football o a basket, perché i tornei scolastici li vinceva entrambi. Si placava solo disegnando: ispirato anche lì, se poi, da professionista, si esibirà nelle caricature dei compagni di squadra. Come in molte storie di grandi dello sport, pure ad Hampton c’è una nonna che tira su il ragazzo con qualche rigore. Ci sono molti padri putativi che lo instradano, dai playground in poi. C’è un allenatore, questo al college di Georgetown, che insegna il basket e non solo quello. George Thompson è un bravo fratello nero, anche se l’America lo ricorderà soprattutto per una sconfitta: guidava lui la nazionale che alle Olimpiadi di Seul ’88 perse coi sovietici (o con Sabonis). Nel 1996, quando entra nei pro, senza finire l’università, è il migliore: Philadelphia lo sceglie al Draft col numero uno. Ma è già visto pure il lato oscuro della luna. È stato 4 mesi in galera, per una rissa che, a 18 anni, provocò molte teste rotte e rancori razziali ad Hampton. Uscito per una grazia del governatore dello stato, ricasca nel braccio della legge quando nel 1997 lo fermano in auto, e a bordo ha marijuana e un’arma non denunciata. Gioca divinamente, però da solista. Ha una sua vita che, eufemisticamente, si direbbe sregolata. Nell’estate 2000, Philadelphia decide di cederlo, ma salta uno scambio e con quello l’affare. Resta, diventa il miglior giocatore della lega e trascina i suoi alla finale coi Lakers. Troppo forti, Philadelphia perde, ma i suoi 48 punti nella prima partita li spaventano a morte. Adesso, sull´uscio della galera, prese le impronte digitali, fatte le foto di profilo come un banale spacciatore di crack, è diventato il caso che fa sguinzagliare i reporter tra la baracche di Hampton, per capire dalla sua prima vita cosa può crescere nella seconda, quella delle auto di lusso, delle ville, dei 41 milioni di dollari che i 76ers gli pagheranno per i prossimi tre anni, dei 48 milioni in 10 stagioni garantiti da una marca di scarpe, per averne La Risposta, The Answer, il suo soprannome, a Jordan e a tutti gli altri. E i reporter hanno raccolto che, per la gente adulta, è solo una star viziata da ficcare al fresco. Ma per i ragazzi che comprano le sue magliette e i suoi cappellini, o si istoriano la testa a treccine come lui, è il più grande a basket e tanto basta. “Lui è il mio idolo”, ripetono, forse perché come lui, 183 centimetri neanche erculei, si può diventare, evadendo dalla vitaccia per andare dappertutto. Anche in galera, purché fuori da lì» (Walter Fuochi, “la Repubblica” 17/7/2002).