Varie, 14 marzo 2002
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Meneghello Luigi
• Malò (Vicenza) 16 febbraio 1922, Thiene (Vicenza) 26 giugno 2007. Scrittore. «Totalmente autobiografico pur essendo l’esatto contrario di un lirico. Critico di sé stesso, convinto che la letteratura debba essere ”una funzione del capire”. Attore della propria messa in scena. La sua opera è ”un’indagine conoscitiva, un bilancio esistenziale, una resa dei conti, un lascito testamentario, un giudizio storico e morale, un potente esorcismo”. Estetica, poetica e gnoseologia si possono riassumere con una formula: la ricerca del ”Dna del reale” (dalla monografia di Ernestina Pellegrini). […] Giorgio Bassani lo scoprì nel 1963 e intuì che l’esordiente vicentino non usciva ”dalle pieghe della redingote del Fogazzaro”. […] ”In passato mi è capitato di dire che sono affezionato soprattutto a Pomo pero . Forse è il più vicino al timbro del sentimento che provavo pensando al mondo dell’infanzia...”. […] Pomo pero è un mirabile requiem, una lamentazione anche se in esso s’incontrano più risate che lacrime. Sequenze come ”armaròn, marangòn, mandolòn, sculassòn, scataròn, rabaltòn” possono anche essere una litania sull’addio al dialetto. In questi coinvolgimenti del lettore sta un altro dei grandi e molteplici meriti della monografia che ci è caro poter segnalare» (’Corriere della Sera” 5/4/2003). «Gli studi elementari e superiori in ambiente dialettofono e in scuola fascista; poi la lotta partigiana e il periodo della Liberazione, con gl’ideali e le delusioni di una democrazia da restaurare, e non completamente restaurata; finalmente il precoce trasferimento in Inghilterra, dove ha creato, a Reading, uno dei migliori dipartimenti di letteratura italiana del mondo. Di questi tre fuochi d’attenzione parlavano già, magnificamente, i precedenti libri. Per l’infanzia e la scuola, soprattutto Libera nos a Malo (1963) e Pomo pero (1974); la vicenda partigiana è evocata, con splendida fusione di nostalgia e ironia, ne I piccoli maestri (1964); infine si riferiscono all’esperienza inglese Il dispatrio (1993) e La materia di Reading (1997). Straordinaria fedeltà: Meneghello continua il suo scavo nella miniera delle forme espressive iniziato col romanzo d’esordio: prima la parlata dialettale, tanto più schietta (almeno per lui, e nella sua infanzia) di quella artificiosa e inamidata della lingua nazionale; poi l’inglese, visto anche (già con occhio adulto) nelle sue implicazioni antropologiche, dall’ethos al costume. Libera nos a Malo era stato accostato ad esperimenti dialettali contemporanei di Gadda, di Pasolini, di molti altri. Ma i rapporti sono minimi. L’intento espressionistico è secondario in Meneghello, che cerca invece di risalire, attraverso il dialetto, alla fase in cui un sentimento, un’intuizione o un pensiero si fanno parola. Va dunque alla radice del linguaggio, convinto che dialetto o idioma nazionale (con le loro varietà tonali) influiscono sul nostro modo di vedere le cose, persino di ragionare. E’ significativo che la poesia in dialetto, fiorente a fine Novecento, abbia trovato nelle pagine di Meneghello le migliori motivazioni. In questo modo lo scrittore ha sviluppato un’eccezionale sensibilità linguistica: ogni parola, ogni modo di dire gli rivelano implicazioni e riferimenti sottili; e questo può essere verificato con traduzioni fra dialetto e italiano, fra inglese e italiano, fra inglese e dialetto (con effetti smitizzanti, persino comici: mi riferisco, al limite, ad alcune traduzioni parziali di poeti inglesi in dialetto vicentino). Un capitolo che Meneghello potrebbe scrivere, e anzi ha praticamente scritto con molte sue pagine, dovrebbe avere come titolo: la lingua come misura del mondo» (’Corriere della Sera” 16/2/2002).