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 2024  aprile 15 Lunedì calendario

I settant’anni de “Il signore delle mosche”

Il signore delle mosche di William Golding compie settant’anni, e nel suo caso si può ben sfidare il cliché dicendo che «non li dimostra», dato che il suo ferale spirito pubescente (più che adolescenziale) ribolle ancora, e ancora colpisce come una lancia ricavata dal bambù di un’isola tropicale. Tuttavia, dal 1954 di cose gliene sono capitate. Non tanto nel Regno Unito o da noi, dove rimane un classico per l’infanzia e l’adolescenza e un’altrettanto classica prima scelta per le letture della classe d’inglese (breve, avventuroso, ricco di spunti e scritto in modo semplice ma non semplicistico), quanto nei più moralisti Stati Uniti d’America, dove, pur conservando a tutt’oggi lo status di classico, è stato messo alla sbarra dalla destra religiosa ben nove volte – nel 1974 in Texas, nel 1981 in Sud Dakota e in Sud Carolina, nel 1983 in Arizona, nel 1984 di nuovo in Texas, nel 1992 in Iowa e in Florida, nel 2000 nello Stato di New York e ancora una volta in Florida nel 2009 – ed è a tutt’oggi l’ottavo libro più bandito nelle biblioteche pubbliche e scolastiche del Paese. Vicenda che può essere letta anche come un segno della vitalità di questo piccolo romanzo, ancora capace di far sussultare i bigotti con la sua storia di bambini e di adolescenti che, ritrovandosi soli in un’isola deserta (tuttavia ricca di cibo e di risorse) dopo un disastro aereo, tornano allo «stato di natura».
Golding, allora debuttante (e destinato a vincere il Nobel per la Letteratura nel 1983), si era ispirato a L’isola di corallo (1858) di Robert Michael Ballantyne, uno dei tanti libri che presentavano il colonialismo britannico come una forza civilizzatrice più che predatoria, e lo aveva fatto con il preciso intento di parodizzarlo e ribaltarne gli stereotipi, molto diffusi in tutta la letteratura per l’infanzia e l’adolescenza dell’epoca: «E se scrivessi un libro con protagonisti bambini che si comportano come tali?», chiese un giorno a sua moglie.
L’idea si rivelò eccellente, al punto che la parodia spazzò via l’originale. Il signore delle mosche è diventato un classico paradigmatico, mentre il suo ispiratore viene ricordato solo in relazione a esso: pochi, oggi, ricordano che Ralph, Piggy e Jack, i personaggi principali del Signore delle mosche assieme al «mistico» Simon, sono puntuali e riconoscibili caricature dei protagonisti de L’isola di corallo.

Settant’anni dopo, però, è legittimo chiedersi se davvero dei ragazzini si sarebbero comportati come ne Il signore delle mosche, dove, dopo un primo tentativo di stabilire ordine e civiltà da parte del «leader illuminato» Ralph, la comunità dei piccoli naufraghi sprofonda nella violenza e nel tribalismo, sotto il comando del più aggressivo Jack (e sotto lo sguardo del loro nuovo dio, il Signore delle mosche appunto, una putrescente testa di maiale conficcata su una lancia).
Ai tempi di Golding andava forte l’idea di un’umanità volta per lo più al male, che solo rigorosi impulsi «civilizzatori» potevano indirizzare; una tesi che avrebbe trovato ulteriore sostanza con due celebri esperimenti psicologici, quello di Stanley Milgram e quello di Philip G. Zimbardo, che una ventina di anni più tardi parvero dimostrare le tesi sottese a Il signore delle mosche. nell’esperimento di Milgram una parte dei soggetti testati, incaricata di interpretare i «carcerieri», poteva somministrare scariche elettriche a chi interpretava invece i «prigionieri», mentre in quello di Zimbardo i ruoli erano interpretati direttamente in una messa in scena concentrazionaria. In entrambi i casi, la situazione degenerava e le cose finivano molto male. Oggi però sappiamo bene – l’ultimo a ricordarlo è stato Björn Larsson nel suo saggio Essere o non essere umani, uscito quest’anno per Raffaello Cortina – che entrambi gli esperimenti erano truccati, sia nelle premesse che nelle conclusioni, onde ottenere un certo risultato, e pian piano i nomi di Milgram e Zimbardo stanno scomparendo dai manuali di psicologia e sociologia. Il signore delle mosche non scomparirà – resta pur sempre un capolavoro – ma oggi può forse apparire un po’ manicheo nella sua dicotomia tra civilizzazione e moralità versus sete di potere e istinti bestiali, tanto più che non viene mai considerata una possibile terza via: e se i ragazzi avessero optato per un tribalismo comunitario e pacifico?

Per fortuna, Il signore delle mosche è un vero classico, e come tutti i veri classici è capace di trascendere le allegorie escogitate dal proprio stesso autore e aprirsi a significati nuovi: ognuno ne trarrà la proprie conclusioni, attorno alla violenza e alla natura della società, all’ordine e al caos, all’infanzia, all’adolescenza e al divenire adulti, e a ben guardare – dev’essere per questo che i bigotti continuano a odiarlo – vi si scorge pure una sottile tensione omoerotica tra Ralph e Jack…
Ma soprattutto, a rendere ancora appetibile il romanzo pure al lettore adulto, c’è la profondità del personaggio di Simon, che aggiunge un piano spirituale all’intera vicenda (e se non fosse stato per l’editor Charles Monteith, che impose il taglio di certi suoi dialoghi con un’entità superiore, questo piano sarebbe stato anche più ampio). Certo, per noi adulti cresciuti giocando per le strade oppure in campagna, che con lance, trappole e colori di guerra avevamo una certa confidenza, era più facile immedesimarsi (ed è facile, oggi, tornare all’infanzia leggendo), ma la mutazione in chiave casalinga delle abitudini dei ragazzi finisce per dare un altro punto di forza al romanzo, almeno sul piano dell’evocazione di scenari fantastici.