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 2024  aprile 15 Lunedì calendario

Come lavorava Truman Capote

Si narra che Charles Dickens, quando scriveva, si strozzasse dalle risate per il suo stesso umorismo e riempisse il foglio di lacrime quando faceva morire uno dei suoi personaggi. «La mia teoria – disse Truman Capote in un’intervista del 1957 alla “Paris Review” rievocando quell’aneddoto – è che uno scrittore dovrebbe asciugarsi le lacrime ed esaurire le risate prima, molto prima di cercare di evocare le stesse emozioni nel suo lettore. In altre parole, credo che l’intensità maggiore nell’arte in tutte le sue forme si ottenga usando la testa in modo deliberato, duro e freddo».
Capote si definiva un uomo «totalmente orizzontale»: riusciva a pensare solo sdraiato, sul letto o sul divano, con una sigaretta e il caffè (nel corso del pomeriggio passava allo sherry e al Martini) a portata di mano. Era così, scrivendo una prima versione a matita, che si formava lo stile di uno scrittore tra i più significativi della letteratura americana del secolo scorso, morto nel 1984 a 59 anni, autore di romanzi, racconti, reportage, opere teatrali, sceneggiature. Forme di scrittura diverse sperimentate sopratutto tra il primo romanzo, Altre voci, altre stanze (1948) e Colazione da Tiffany (1958) con lo scopo preciso di «raggiungere un virtuosismo tecnico resistente e flessibile come la rete di un pescatore». Nel 1966 arriva A sangue freddo e, con il libro, l’invenzione di un genere narrativo che Capote definì non-fiction novel, romanzo-documento o romanzo-verità, fondato sulla ricostruzione precisa di un crimine realmente avvenuto – la famiglia di un agricoltore del Kansas (i genitori e due dei quattro figli) sterminata – e sulla personalità di vittime e assassini.
Tredici anni dopo A sangue freddo, Capote tornò a occuparsi di crimini con un breve romanzo, Bare intagliate a mano, che Garzanti il 3 maggio rimanda in libreria con la nuova traduzione di Marco Rossari. Il romanzo era inserito al centro del volume del 1980 Musica per camaleonti (pubblicato in Italia sempre da Garzanti), che raccoglie saggi e interviste dell’autore a personaggi come Marilyn Monroe, un membro della Banda Manson, due gemelle siamesi che raccontano le loro esperienze sessuali. Le piccole bare intagliate a mano, a cui fa riferimento il titolo del romanzo, fanno parte di un rituale che coinvolge sette cittadini di un’imprecisata località del Midwest americano, organizzati in un piccolo comitato per deviare il corso di un fiume, contro il potente proprietario terriero locale. Negli anni successivi verranno tutti uccisi in modi diversi, ma ugualmente efferati, dopo aver ricevuto la piccola bara con, all’interno, la propria fotografia. Anche questa fu per un certo periodo di tempo considerata una storia vera, più reportage giornalistico che romanzo, anche per via del sottotitolo, A Nonfiction Account of an American Crime; poi si chiarì che era un intreccio di fiction e realtà, dove di vero c’era soltanto l’anima oscura della provincia americana.

Franco Cordelli
È il centenario della nascita di Truman Capote. «Nacqui a New Orleans, figlio unico» scrisse lo stesso Capote per il ventesimo anniversario del suo primo romanzo, Altre voci, altre stanze. «I miei divorziarono quando avevo quattro anni. Fu un divorzio complicato, con molta acrimonia da ambedue le parti, ed è principalmente per questo che passai la maggior parte della mia infanzia sballottato da un parente all’altro tra la Louisiana, Il Mississippi e le campagne dell’Alabama (frequentando saltuariamente scuole a New York e nel Connecticut). Quello che lessi da autodidatta fu molto più importante della mia istruzione ufficiale, che si rivelò una perdita di tempo ed ebbe termine quando avevo diciassette anni». È l’età in cui cominciò a scrivere quel primo romanzo che gli attribuì una fama di pura eccentricità, sempre discussa. Fin dal principio. Non era, quel romanzo, molto influenzato da Carson McCullers?

Le controversie sulla sua opera non cessarono mai. Si protrassero oltre la morte, avvenuta nel 1984, ed è difficile stabilire quanto derivassero dal personaggio o da quanto egli aveva scritto e pubblicato. Faccio un esempio. Cosa di lui pensavano i critici e i suoi colleghi? Qui in Italia, per un puro malinteso, l’introduzione al Meridiano Mondadori fu affidata ad Alberto Arbasino, che non lo amava in modo particolare. Non vedo traccia del suo nome nei libri di Alfred Kazin, di George Steiner, di Frank Kermode, di Harold Bloom. Kenneth Tynan, per A sangue freddo, accusò Capote di aver accelerato l’esecuzione dei due colpevoli per mettere al sicuro la fortuna del suo romanzo. Leslie Fiedler (nel 1960) scrisse di Capote: «Truman Capote, che, fin dal principio, mostrò un notevole talento di scrittore, ha finito via via col recitare una parte, sia nei suoi scritti sia fuori di essi, e rappresenta, a beneficio del suo ristretto ambiente, l’elegante androgino malinconico, metà reginetta di bellezza e metà anormale. Ha dissipato quanto di buono prometteva dandosi al giornalismo».
Per non parlare dei colleghi, benché in questo caso gli scambi di critiche, anche aspre, non vennero mai meno. Penso a Saul Bellow, a John Updike, a Gore Vidal; ma anche a scrittrici molto più giovani: non lo nominano né Zadie Smith, né Siri Hustvedt, né Rachel Cusk. Tra questi, un caso speciale è Gore Vidal, prima amici, poi nemici, poi di nuovo amici e di nuovo nemici. Scrisse Vidal: «Né io né Mailer né Capote, per citare tre scrittori dal talento molto diverso, abbiamo mai mostrato il nostro valore reale fino a quando non abbiamo trovato la nostra vera voce. Mailer ha passato anni a cercare di scrivere capolavori senza tempo, e questi anni hanno avuto un effetto disastroso su di lui. Capote non è mai stato altrettanto ambizioso, né altrettanto letterario. Voleva semplicemente diventare famoso scrivendo; perciò ha solo copiato i libri di scrittori alla moda. Ha saccheggiato Carson McCullers per Altre voci, altre stanze, rapito la Sally Bowles di Isherwood per Colazione da Tiffany».
Non citerò le opinioni di Capote su Mailer, su Vidal, su Updike. Disse di Faulkner: «Non gli interessava lo stile. Si è trovato per caso con una specie di stile sciatto sul quale non ha mai avuto un controllo reale». Di Thomas Pynchon: «Orrendo». Di Donald Barthelme: «È lo scrittore più falso e noioso del mondo». Di Jack Kerouac: «Era un buffone. Povero, vecchio Kerouac». Capote sapeva un po’ il russo; era stato a Mosca a lungo, seguendo il musical Porgy and Bess, trasferta cui dedicò Si sentono le Muse. Disse di Dostoevskij: «Sì, gli interessava lo stile. Solo che il suo stile fa schifo». Questo era anche il clima. Il clima dell’epoca. Ma non posso non citare quanto di lui disse William Styron: «È uno scrittore estremamente dotato, un uomo con un talento quasi unico. Padroneggiava alla perfezione la lingua ancor prima di avere l’età per votare. Grazie al tocco della sua penna le parole ballavano e cantavano, cambiavano colore misteriosamente e facevano giochi di prestigio, provocavano risate e brividi lungo la schiena, arrivavano al cuore».

Ecco, il punto è questo: le sue parole arrivavano (arrivano) al cuore. Non si limitò a frequentare l’alta società, a bere, a fare uso di cocaina. E non è neppure vero che il suo talento non era «letterario». Dopo il successo di A sangue freddo, quando il meno attendibile tra i suoi biografi, Lawrence Grobel (ben diversi i libri di Gerald Clarke e George Plimpton), gli chiese se Joyce e Proust avessero portato il romanzo al suo limite estremo, rispose: «Non lo penso affatto. Il romanzo ha le sue radici, ma credo che si stia avvicinando sempre più a quello che sto tentando di fare io, ovvero trasformare la verità in finzione, o la finzione in verità... Poi non è questione di verità o finzione. Si tratta di raccontare una storia, solo di questo. Si tratta di imparare a controllare ciò che si narra, in modo che scorra più velocemente e allo stesso tempo scavi più in profondità. Dal punto di vista tecnico, posso usare espedienti narrativi in tutti e due i modi». Dopo averlo intervistato nel 1980 («quell’omino bambinesco, scalzo, in camicia da notte, un metro e sessanta per quarantacinque chili scarsi... Me lo immagino come una presenza innocua e rassicurante, seduto sul bordo di letti e divani, pieno di verve, con quella sua voce cantilenante e interrogativa»), sei anni dopo Martin Amis scrisse: «In Colazione da Tiffany, Capote stronca Il canto del boia di Mailer e ne approfitta per ribadire la sua tesi per cui il romanzo verità è, o può essere, “fantasioso” almeno quanto il romanzo non verità, vale a dire il romanzo vero e proprio».
Torniamo però a quell’opinione di Gore Vidal, che Colazione da Tiffany altro non sia che un «rapimento» dalla Sally Bowles di Christopher Isherwood. Vidal si riferisce naturalmente a Addio a Berlino, ovvero ad un suo lungo capitolo. Ma Addio a Berlino non è che il titolo italiano. Il titolo originale è I Am a Camera. Ora è indubbio, o almeno io credo, che Capote il romanzo di Isherwood lo avesse letto. Si potrebbe pensare che ve ne siano tracce minime qua e là (compare perfino il nome Sally – ma attribuito ad un uomo, e ad un uomo molto speciale, Sally Tomato, il trafficante in carcere che Holly va a trovare ogni mese e che risulterà la causa del suo arresto – e qui, con una lieve deviazione, ne ritroviamo forse una traccia in un romanzo italiano contemporaneo, in Cleopatra va in prigione di Claudia Durastanti). Soprattutto, Holly proprio come la protagonista del racconto dello scrittore inglese, vive in un perenne stato di ebbrezza e di confusione: sua massima ambizione (come quella di Capote) è di vivere nell’alta società e nonostante a diciannove anni confessi di aver avuto rapporti solo con undici uomini (ma di volere nove figli) l’impressione del lettore, o quella che Capote ci lascia intravvedere, è che uomini ne abbia avuti molti di più – non fosse che per sbarcare il lunario, o meglio per mantenere un certo tenore di vita.

Cruciale è tuttavia che nei dodici mesi da Capote raccontati, Holly non solo vive in modo più avventuroso di Sally ma che tutte le sue vicende producono un effetto di intimità che ad Isherwood non interessa affatto: il suo romanzo mantiene uno svolgimento fedele al titolo. Il narratore registra ciò che vede, non si mette mai in gioco, non sembra neppure voler capire. Isherwood (è la sua grandezza) non cade mai in una qualche frase di sintesi, non lascia lievitare «pensieri», tanto meno giudizi.
Al contrario, Capote ha molte tentazioni, di diversa natura – anche saggistica. In Colazione da Tiffany molto meno, va da sé, che in A sangue freddo: questo è un romanzo (sia pure un romanzo-verità) e Colazione da Tiffany è un racconto – nel quale, semplicemente, la protagonista corre mille avventure: incontra una quantità di uomini, crede di essere gelosa di un’altra donna, ama il fratello Fred in guerra (siamo nel 1943), vive con José, spera di sposare José (un ricco brasiliano), rimane incinta, dichiara all’amico e narratore «Fred» (così vuole chiamarlo) la sua imperitura amicizia, ammette di essere sposata da quando di anni ne aveva quattordici, dice che quel matrimonio non esiste (come può darsi un matrimonio valido per una quattordicenne?), fa di continuo provini, si affaccia quasi nuda alla finestra della sua disordinatissima camera quando è agli arresti domiciliari, riceve dal brasiliano che la voleva sposare la lettera in cui annuncia d’essere tornato a Rio senza di lei, ma lei avendo in tasca il biglietto per l’aereo decide di partire lo stesso – però perdendo mentre corre all’aereoporto il suo gatto, rimasto senza nome perché «noi non ci apparteniamo», e invano torna sui suoi passi, e prega ancora di cercarlo l’uomo che non è più Fred perché ha appena saputo che suo fratello è morto – dopo tutto questo, dopo che tutto ciò scorre velocemente e che noi quasi di nulla ci accorgiamo – come Capote diceva e voleva – quale lettore può ancora pensare che Colazione da Tiffany abbia una qualche reale parentela con la discrezione dell’autore di I Am a Camera? Quale lettore non sente che questo racconto gli è arrivato al cuore?