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 2024  aprile 17 Mercoledì calendario

Gaja, il vino del futuro


Ottantaquattro vendemmie e Angelo Gaja ancora non è stanco. «Dicono che trascino i piedi... Avete presente Joe Biden? Ecco io so far ben di peggio...».
Sarà. Ma la memoria no, quella è cristallina. E l’uomo a cui la più prestigiosa rivista del vino – Wine Spectator – ha dedicato un inserto, adesso sorride. Lui che è considerato un ambasciatore nel mondo dell’enologia italiana, che ha innovato prima di altri, guardato più lontano di altri, adesso parla con la forza di un quarantenne che ha appena iniziato la sua corsa. Lo fa davanti ad un bacino di startupper del Politecnico di Torino che sognano di diventare un giorno dei re.
Ma per ora “il re” vero è lui. Che racconta della nonna Clotilde e di tutto quel che gli ha insegnato («Un giorno disse: “Se vuoi diventare un artigiano ricorda questo. Devi fare. Saper fare. Saper far fare. E far sapere”. E aveva ragione lei»). Racconta del nonno, del papà, e di quella scelta di investire sul vino Barbaresco, facendolo diventare re delle tavole dopo un passato di vino povero del posto e misconosciuto. Svela le sue Langhe Mr Gaja, la terra di Fenoglio, ma prima ancora di Cavour e di Einaudi. Ha una spiegazione per il cambio di passo che c’è stato in quel territorio nell’ultimo mezzo secolo: «Fenoglio ci ha raccontato che eravamo un posto di scommettitori, di gente che rischiava. Poteva perdere fortune oppure diventare un signore. Cavour ci aveva invitati ad investire, a fare profitti, a creare lavoro. Dall’unione di questi due elementi, il rischio e la voglia di fare, è nata la Langa che conosciamo oggi. La patria di tante cose, del vino, della Nutella, dell’enogastronomia, dei tartufi. Ma in questo angolo di Piemonte è stato fatto un passo in più. Si è valorizzato ciò che si aveva. Si è dato un nome alle cose. Per dire: il tartufo bianco di Alba è diventato un marchio...».
Ecco, è qui in questo Piemonte dalle colline dolci, che Angelo Gaja ha creato un impero. I piedi a calpestar la terra tra le vigne mentre ancora andava all’università. Le sgridate dei vignaioli esperti mentre sceglieva tra i filari i germogli da tenere e quelli da staccare. «Tutto fa, tutti possono insegnare. Io da loro ho imparato il valore delle colline dove ci sono le viti» ripete l’uomo che oggi produce vini d’eccellenza conosciuti in tutto il mondo. L’uomo che ha usato per primo la barrique col bianco, che senza saper parlare inglese (o quasi) è sbarcato negli States a portare il suo prodotto. Ed è un viaggio. Nel tempo passato e in quello che verrà. Con qualche critica, anche. Mr Gaja non ha dubbi: «C’è differenza tra i territori di Langa, Alba, Barolo, Barbaresco: sono posti dove arrivano i turisti. Ed è un lavoro contenerli e guidarli. Benvengano, certamente. Ma io sogno anche un turismo più lento, più morbido, quello dell’Alta Langa. Dobbiamo riuscire a fare lì quello che non siamo riusciti a fare da altre parti. Terreni e vita lenta, anche se abbiamo un disperato bisogno di uomini per lavorare». Non ci sono più i contadini del posto? «Ma sì, certo. Qui sono arrivati tutti: prima gli albanesi, poi i romeni, adesso sono giunti gli indiani. Grandi lavoratori. Chi rimane ha compreso la filosofia che ci guida».
Ecco, vista così la vita del “re” è una corsa di resistenza lunga decenni, tra un passato complicato ed un futuro che ha ancora tanto da scoprire. Che ne pensa dell’alcol? «Hanno dichiarato che è cancerogeno. Ma, il vino affonda le sue radici nella storia, nella religione. Contiene alcol? Certamente. Ma è l’alcol più biodinamico in assoluto. Gli aperitivi invece hanno soltanto alcol aggiunto. Quello fa male davvero». Parla del clima e dei cambiamenti che sono qui davanti a noi: «Per le maturazioni, da un lato, tutto quel che sta accadendo è un bene. Ma sul fronte opposto portano ad una preoccupante presenza di patogeni nuovi. Ora siamo noi che dobbiamo essere capaci di adattarci e di guardare lontano. Dobbiamo agire, proteggere, costruire il futuro».
Non fa il maestro, Angelo Gaja, racconta se stesso senza infingimenti. Racconta di uomini incontrati nei suoi viaggi, di gente che come lui ha scommesso ed ha vinto. Parla delle sue innovazioni. Del modo a volte un po’ rischioso di intendere il futuro. E dei sacrifici. Perché anche star lontano da casa lo è: «Quando nacque mio figlio Giovanni, era un periodo durante il quale viaggiavo molto. Stavo tanto tempo all’estero. La gente di Barbaresco diceva che lo avevo concepito con il fax».
Ma poi è tempo di ricordi che fanno sorridere. Come quella volta in cui decise di piantar viti di Cabernet-Sauvignon. «Mio padre era contrario, per lui il vino era soltanto quello rosso. Ma io feci analizzare lo stesso il terreno e mi dissero che il posto migliore era un appezzamento vicino a casa sua. Piantammo le viti a febbraio, mentre lui era Sanremo. Quando lo scoprì, un po’ si offese. Disse: “Darmagi”, “peccato” in piemontese. E quello è il nome che abbiamo dato a quel vino».
Dettagli di ottantaquattro vendemmie. Di una vita fatta di incontri che lo hanno segnato. E di altri appena sfiorati, come quella volta che da ragazzino incrociò Beppe Fenoglio: erano al caffè Savona di Alba. Lo scrittore arrivò con altri amici. E lui, con i suoi, se ne andò poco dopo. Non si parlarono. Ed è un peccato, perché se lo avessero fatto chissà che cosa ne sarebbe uscito. —