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 2024  aprile 15 Lunedì calendario

La notte di Nelly Sachs ci illumina ancora


Una fotografia sigilla l’evento. Nelly Sachs aggiusta la cravatta a Shmuel Yosef Agnon. Lo scrittore nato a Bucac, Ucraina, israeliano, sorride, ha la fierezza di un re. La sua gioia è giustificata: ha pubblicato alcuni romanzi magnifici; leggete Una storia comune, almeno, stampa Adelphi. Lei, Nelly, è intimidita, si sente fuori luogo, come sempre. È il dicembre del 1966 e per la prima volta nella storia il Nobel per la letteratura è conferito in condivisione; entrambi gli autori Agnon e Nelly Sachs sono di origine ebraica. Il premio reca una sinistra preveggenza: nel giugno del ’67 scoppia in Sinai e in Cisgiordania la Guerra dei sei giorni. Nessun cittadino di Israele, da allora, ha vinto il Nobel per la letteratura.
Agnon si muoveva a suo agio, indossava la kippah. Durante il Banquet speech, Nelly Sachs, viso-rupe, pari a una scure, dirà di sentirsi in «una favola». Quel giorno compiva 75 anni. Davanti agli stupiti astanti, che al posto di una fata o di una principessa si trovarono al cospetto di una creatura minuscola, un dolente cencio, un essere furtivo forgiato, forse, dalla mente di Kafka, Nelly Sachs raccontò il duro nodo della sua vita. Braccata dalla Gestapo, nell’estate del 1939, Nelly contatta Selma Lagerlöf, la scrittrice che più di tutte ammira, perché la aiuti a fuggire dalla Germania. Grazie a un’amica, la poetessa riesce a scampare i campi di lavoro e sbarca in Svezia, a Stoccolma. Con lei, viaggia la madre. «Respiravo aria di libertà: non conoscevo nessuno, non sapevo la lingua». Le due vivono di stenti. Bisogna immaginarle, le ultime donne della terra, in una buia tana: il cucchiaio pare un lume mentre la figlia imbocca la madre, malata. Così scrive Monica Lumachi: «I primi anni dell’esilio sono una stagione di quasi totale solitudine e di inaudite sofferenze materiali e morali, al capezzale della madre inferma e visitata da continue allucinazioni notturne».
Nel 1947, per l’editore Aufbau, Nelly Sachs pubblica la prima raccolta che sente autenticamente sua, Negli appartamenti della morte (ora tradotta in italiano da Anna Ruchat per Giuntina, pagg. 150, euro 18). Sono versi dolenti, questi, docili, di allucinata bellezza («La tua casa, mio amato, lo sento/ è tutta coperta della neve di Dio»), nati eterni dopo uno strenuo lavoro di rabdomanzia. Nei Cori di Nelly Sachs sorta di salterio per il nuovo mondo, per un derelitto Eden parlano gli alberi («La nostra lingua è un misto di sorgenti e di stelle/ Come la vostra./ Le vostre lettere sono fatte della nostra carne»), le nuvole («Imitatrici del morire, noi/ Vi abituiamo dolcemente alla morte»), le stelle («polvere che vaga, luccica, canta»). Prendono voce i «non nati»: «Già la nostalgia comincia a lavorare in noi/ Le rive del sangue si allagano per riceverci/ Come rugiada ci caliamo nell’amore».
La morte della madre, nel 1950, la sfascia. Nelly Sachs è preda di crisi nervose, è ospite di diverse cliniche psichiatriche. Le sue Lettere dalla notte (Giuntina, 2015) testimoniano
la profetica onnipotenza di una poetessa implacabile, tra le grandi di ogni tempo, sullo stesso desco in cui posano, inquiete, Saffo, Suor Juana Inés de la Cruz, Emily Dickinson, Anna Achmatova, Sylvia Plath. «Ora io faccio parte del seguito. Nient’altro. Di coloro che devono seguire attraversando il sale, immersi nell’acqua di prima della creazione, nell’acqua del lutto. Nessuno sa se le stelle marine, le meduse e i pesci e tutte le cose che soffrono nella cecità stiano ancora andando o siano già sulla via del ritorno», scrive. Scrive che «anche la morte è una gemma». Figlia dell’alta borghesia ebraica, nata nel 1891 a Berlino da genitori non osservanti, ora Nelly Sachs trae ispirazione dallo Zohar, il libro-pioniere della cabbala, e dalle storie degli ebrei chassidim, gli ubriachi di Dio. Il padre, un industriale, era morto, dopo lunga malattia, nel 1930. Da bambina, nella villa di famiglia, Nelly giocava con un cervo. «I miei occhi sono spalancati, come quelli della lepre, sempre rivolti verso la fine», scrive. In una poesia evoca «L’angelo pietrificato/ grondante ancora memoria/ di un precedente universo/ senza tempo» (la traduzione di Ida Porena è raccolta nelle Poesie edite da Einaudi nel 2006). La poetessa è inerme e fa paura angelo che si fa pavone, poi lince. L’ultima raccolta ha un titolo emblematico, Enigmi roventi.
L’amicizia con Paul Celan, inaugurata nel 1954, le fu di conforto. In Celan che ricambiò a tratti l’alta confidenza, Nelly Sachs intuì l’unico, il fratello, forse il figlio. «Caro poeta, caro essere umano», gli scrive, nel gennaio del 1958: «Io credo in un universo invisibile nel quale iscriviamo ciò che abbiamo inconsapevolmente compiuto. Sento l’energia della luce che fa scaturire la musica dalle pietre e soffro per la freccia della nostalgia» (in: Paul Celan-Nelly Sachs, Corrispondenza, Giuntina, 2017).
È scabra di eventi la vita di Nelly Sachs, sottratta al mondo da ripetuti crolli mentali, ad auscultare le voci di un altrove dalle travi di vento. Usò il taglierino per cancellare ogni traccia del suo passato; sfregiò perfino l’icona di un amore folle e proibito (o illusorio?) vissuto da ragazza era lieve e bella, all’epoca. Al Nobel andò come a una festa in maschera la sua etica: nascondersi. Al critico tedesco Walter A. Berendsohn aveva ricordato: «Avrai capito che voglio sparire dietro la mia opera, che voglio rimanere anonima... voglio che mi si cancelli completamente solo una voce, un sospiro per coloro che vogliono ascoltare».
Scalfita da un tumore, Nelly Sachs muore a Stoccolma nel 1970, a metà maggio. Agnon, suo consorte al Nobel, era morto poco prima, in febbraio. L’amico amato, Celan, si era gettato nella Senna nell’aprile di quello stesso anno. «Fenditi notte», gli aveva scritto, nell’ultima lettera: immaginava che l’oscurità potesse squarciarsi come un lenzuolo, che la luce portasse in sé la ferocia di un rapace.