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 2024  marzo 28 Giovedì calendario

Duras, la ragazza del Mekong


La ragazzina ha due trecce rossicce, strette come funi, e il corpo minuto, gracile. Il viso pieno di lentiggini, abbronzato dal sole, da un’esistenza all’aperto, sempre a piedi scalzi. Gli occhi a mandorla, come un’annamita, una piccola creola più gialla che bianca – sembra una meticcia, la vedete? È cresciuta mangiando manghi e pesce d’acqua dolce in salamoia, mangiando «porcherie da colera»: così le chiama sua madre.
Ma la ragazzina non può farci niente, se al pane preferisce il riso, se sputa la carne, le mele, che paiono cotone, e adora le zuppe dei venditori ambulanti del Mekong. Qualche volta, quando prendono il traghetto, la madre gliene compra una porzione. La ragazzina parla la lingua della sua terra natale, anche se la madre è un’istitutrice francese, figlia di contadini del Nord, venuta a insegnare nelle colonie indocinesi con il marito, un professore di matematica. Presto, però, è rimasta vedova.
La ragazzina allora aveva solo sette anni. È nata nel 1914 a Gia Dinh, in Cocincina, il 4 aprile. È la più piccola della famiglia Donnadieu. Marguerite: è così che si chiama.
Con i suoi fratelli, Pierre e Paul, la sera si immerge nel fiume, mentre i bambini indigeni, spalmati di zafferano contro le zanzare, le giocano intorno, fanno le capriole, si tuffano e riemergono – riuscite a vedere la scena?
Provate a immaginarla, perché una foto di quel momento non c’è. Un’istantanea dell’infanzia. Nessuno l’ha scattata, come nessuno ha scattato la foto della famosa traversata verso Saigon. Nessuno sapeva che, durante quella traversata, la ragazzina avrebbe incontrato un uomo cinese, molto ricco, dodici anni più di lei. Marguerite ne aveva quindici e mezzo. Quella foto mancata è il buco, la crepa, da cui scaturisce il suo romanzo più celebre.
L’amante, premio Goncourt 1984, fu pubblicato quando lei era ormai una donna, anzi una vecchia signora, con una carriera letteraria quarantennale, conosciuta da tutti come Marguerite Duras. Era stata lei a darsi questo cognome, Duras, nel 1943, all’uscita del suo esordio, Gli impudenti, per sancire la sua nuova identità di scrittrice.
Mi ha sempre colpito il fatto che il suo romanzo più conosciuto e tradotto, un successo mondiale, fosse nato per caso: dal fallimento di un altro progetto. Si trattava di un album fotografico, che avrebbe raccontato la sua vita attraverso alcune foto, sue e dei suoi film: lei le avrebbe scelte e commentate. Si sarebbe intitolato La photo absolue, «La foto assoluta». Come spesso capita, il progetto si arenò. Anzi, si trasformò. L’amante germina da quel materiale, dalla serie di foto che avrebbero dovuto ritrarre un’intera vita. Ma Duras scrisse che la storia della sua vita non esiste.
Quest’affermazione è uno dei paradossi cui è abituato chi la ama: come me, o magari come voi che state ascoltando. Nasce però anche dalla consapevolezza che né le foto né la scrittura potranno mai rendere conto di una vita in modo integrale, autentico.
Ne L’amante Duras dichiara di aver già fatto presagire, in altri libri, la storia della ragazzina che attraversa il Mekong, ma dissimulando, perché l’ambiente in cui aveva cominciato a scrivere le imponeva pudore. Si riferisce alla famiglia, al contesto letterario, al Partito comunista, in cui militava? Chissà. In ogni caso, dice, adesso racconterà ciò che finora è rimasto nascosto.
Ed è così che confonde le acque. Gioca con il lettore, si permette tutto ciò che la scrittura permette. È così che fa autofiction, ben prima che l’autofiction diventi una moda. E la rende persino popolare. Solo Dio avrebbe potuto scattare la foto del traghetto, perché solo lui conosceva l’importanza della traversata del Mekong, quel giorno, nell’esistenza di Marguerite. Ma Dio, si sa, è sempre distratto. Proprio perché non è stata scattata, dice Duras, quella foto rappresenta un assoluto.
Tra le immagini che nessuno, neppure Dio, ha catturato, c’è anche quella che provavo a evocare assieme a voi, poco fa. L’immagine di Marguerite che si bagna nel fiume con i fratelli, cacciatori di tigri e pantere nella foresta, mentre dal bungalow la madre chiama, gridando come sempre, minacciando l’ennesima crisi. Anche questa è una foto mancata, e anche questa rappresenta per me un assoluto.
È l’assoluto dell’infanzia, e perciò segna inevitabilmente un destino. Il suo destino di scrittrice.
«Credo, a volte, che tutta la mia scrittura nasca da lì, tra risaie, foreste, solitudine», dice Duras in un’intervista dell’89 a Leopoldina Pallotta della Torre. E aggiunge: «Non so davvero cosa spinga la gente a scrivere se non, forse, la solitudine di un’infanzia». Di quella solitudine racconta per la prima volta in uno dei Quaderni della guerra, quattro taccuini riempiti fra il ’43 e il ’49, rimasti inediti fino al 2006.
Nel quaderno rosa, si domanda perché scriva di quei ricordi, e si risponde che è per un «istinto di riesumazione»: non vuole dimenticare. «Se non sono fedele a me stessa», dice, «a chi lo sarò?». È in questa fedeltà a sé stessi, un concetto tanto semplice quanto misterioso, che io rintraccio l’origine della scrittura – di chiunque, non solo di Duras.
La sua fu un’infanzia selvatica, in cui la quotidianità erano gli insulti e le botte del fratello maggiore, Pierre, che più dipendeva dall’oppio e più diventava brutale. Era la paura per il fratello Paul: la sua fragilità scavava in Marguerite una tenerezza straziante. Erano gli improvvisi cambi d’umore della madre: Marguerite ne subiva le percosse senza reagire perché temeva per lei, per la sua incolumità.
La madre si era ammalata dopo la vicenda della diga, che Duras avrebbe narrato in Una diga sul Pacifico, nel 1951. Madame Marie Legrand, vedova Donnadieu, aveva investito tutti i suoi risparmi per ottenere la concessione di un terreno, che però si era presto rivelato incoltivabile, perché ciclicamente inondato dal mare. Il sistema corrotto delle concessioni coloniali assegnava le terre migliori a chi pagava tangenti sottobanco, e frodava tutti gli altri.
Come poteva saperlo, lei? Fu ingannata. Ma non si rassegnò all’ingiustizia: convinse altri contadini ad aiutarla a erigere una diga – pensateci, una diga. Per arginare l’oceano. Chissà come riuscì a farsi dare retta.
Il crollo della diga la gettò definitivamente nella follia, oltre che nella miseria. Lo spettacolo della sua prostrazione è forse ciò che più accomuna i suoi tre figli, persone molto diverse fra loro, e che però l’hanno amata, quella madre, dello stesso forsennato amore.