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 2024  marzo 29 Venerdì calendario

“Buffalo Woman” da Far West


I cowboy, le angherie sui nativi, le praterie sconfinate, i codici d’onore mobili. Storie di coraggio, di gloria e di miseria; storie di frontiera, ma con uno sguardo al femminile, capace di bucare ogni palloncino di auto-mitologia nazionale imperialista e machista. Giusto una donna poteva scrivere western così potenti, in cui l’azione non si esaurisce nel chi mette per primo mano alla fondina della pistola, ma si sviluppa nel saloon interiore di antieroi più complessi di ogni cliché.
Dalle opere della scrittrice americana Dorothy M. Johnson (1905-1984) – di cui Mattioli 1885 ha appena pubblicato la raccolta di racconti L’uomo che uccise Liberty Valance – sono stati tratti alcuni dei film più iconici sul Far West, un genere cinematografico sovente reazionario, ma non per Johnson. Purtroppo la sua voce tagliente taceva dalle nostre parti da oltre mezzo secolo: per rintracciare l’ultima volta che era stata tradotta in Italia bisogna risalire al 1972. Dopo, un irragionevole oblio, colmato adesso dall’intuizione della casa editrice emiliana.
In questa antologia di novelle c’è Dorothy in tutta la sua purezza. Innanzitutto riappaiono i tre testi degli anni Cinquanta che spopolarono quando vennero trasportati sul grande schermo: l’eponimo L’uomo che uccise Liberty Valance insieme con Un uomo chiamato cavallo e L’albero degli impiccati. Il primo, per intenderci, fu diretto da John Ford (1962) e interpretato da John Wayne e James Stewart; nel secondo recitava Richard Harris e nel terzo un certo Gary Cooper. A questi classici si somma qui Una sorella scomparsa: animata dalla creatività e da una modernità permanente, cresciuta in una genìa di duri, spietati e tutti d’un pezzo, la ragazza accetta di mettere in piazza le proprie fragilità, comprese le pene sentimentali. Alla regia, lungimirante e sottile, c’è sempre la penna audace di Johnson.
Ecco sfilare uomini intrepidi, ma mai invincibili; il sacrificio, la lealtà e la legge alternativa del cuore; sceriffi e banditi con parecchie taglie sulla testa; ambizioni febbrili e bilanci agrodolci al crepuscolo della vita; giornate felici e tragedie; il culto inutile della vendetta, i duelli all’ultimo sangue che non portano da nessuna parte e la violenza come scorciatoia.
Battute secche e zero smancerie, “Buffalo Woman” – come da titolo di un suo romanzo – prova compassione per quegli uomini smarriti nell’Estremo Ovest che è altresì un labirinto dell’esistere. “Ranse, Foster non aveva mai odiato nessuno prima di incontrare Liberty Valance, ma Liberty non era stato l’ultimo uomo che aveva imparato a odiare. Odiava anche l’uomo che lui stesso era diventato mentre aspettava di incontrare di nuovo Liberty… Anni dopo, in età avanzata, Ranse, Foster pensò a tutti gli uomini che era stato nel corso della vita. Nessuno di loro suscitava davvero la sua ammirazione”. Il suo è il femminismo delle pioniere di seconda generazione. II tono della prosa, non di rado, si fa beffardo. Consigli per ammorbidire, a piccoli passi e senza lanciarsi occhiate di fuoco, millenni di patriarcato. “Un uomo non dovrebbe vergognarsi di chiedere aiuto a qualcuno che ne sa più di lui”.
Dorothy arriva perfino ad animalizzare un maschio, un bianco yankee, Un uomo chiamato cavallo, appunto. Che memorabile espiazione di genere e di classe, che attacco frontale alla mistica interessata della “nascita della nazione”: “Un uomo avrebbe dovuto subire umiliazioni, e prima o poi avrebbe reagito e quella sarebbe stata la sua fine. Ma un cavallo doveva solo essere docile. Benissimo, avrebbe imparato a vivere senza orgoglio”. Il ragazzo-equino, ex rampollo della buona società statunitense, viene ridotto all’infimo rango di schiavo di proprietà di un’anziana satrapica, indiana d’America. Che contrappasso la metamorfosi in un “cavallo più accomodante degli altri perché non poteva scalciare o mordere… E anche tra i cavalli si sentiva inferiore. Loro sarebbero riusciti a sopravvivere se fossero scappati. Invece lui sarebbe semplicemente morto di fame. Continuava a essere invidioso, anche tra i cavalli”. O ancora: “Con umiltà trasportava cose e tornava indietro. A volte si offriva persino di dare una mano con gli altri lavori, ma non aveva il talento per le interminabili faccende delle donne”. Il risarcimento storico, benché per vie narrative, assume tratti morali impagabili. “L’indiano che lo aveva catturato viveva da signore, come gli spettava. Il bianco aveva uno status così inferiore al suo che l’indiano non si sognava nemmeno di essere geloso”. Parola di Dorothy M. Johnson, la donna più veloce del West.