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 2024  marzo 28 Giovedì calendario

Intervista a Caterina Guzzanti

Un ragazzo incontra una ragazza. La notte poi non passa. E non perché finiscano labbra sulle labbra, eccetera, (no epiloghi barbari, novecenteschi, cis, binari, aggressivi: largo al futuro) anche se lei (cis, binaria, tardonovecentesca quindi scissa, millennial quindi agitata, confusa) lo vorrebbe tantissimo e lui, invece, pensa che lei, bella brillante risoluta e autonoma com’è, non sia il tipo. Così, anziché baciarsi, parlano, discutono, si danno delle regole: essere gentili, pensare bene a cosa dire e come e quando e perché, usare persino un linguaggio in codice. Non riescono a fare sesso: lui è impotente, lei desiderante. Lui le dice: non sei tu, è il lavoro, lo stress, l’apocalisse; lei gli dice: chiama un dottore. Lei gli dice: parliamone; lui le dice: ti do trecento euro se non ne parliamo, anche mille, ti prego, lasciami in pace. Stanno dentro a una storia che non decolla, un esasperante crescendo che non esplode mai, e che li invischia ma non li avvita, non li unisce, è un amore parlato e mai concreto, distanziato, in sicurezza. È la relazione di coppia come ce ne sono moltissime nel nostro tempo: triste, esangue, razionale, grottesca, tragicomica, infertile.
Si chiama Secondo lei ed è il primo testo in prosa e la prima regia teatrale di Caterina Guzzanti, 25 anni di carriera appena compiuti e cominciati per caso, a 21 anni, quando sua sorella Sabina le propose di partecipare al Pippo Kennedy Show, sulla Rai, e lei era timida e cocciuta abbastanza da essersene tornata a Roma, da Londra, perché non aveva alcuna smania di indipendenza e preferiva stare dove stavano le sue cose, il suo fidanzato, il padre dal quale dice di aver preso i polpacci e lo spirito, la madre da cui dice di aver preso il pragmatismo e tutto il resto, il fratello e la sorella che le hanno a lungo procurato la noiosa dop “sorella d’arte”. Di quella ragazza e della donna con molte meno certezze che è diventata, ha messo moltissimo in Secondo lei: «Inclusa una lettera che non ho mai mandato, e che ho scritto piangendo, come molte altre parti della sceneggiatura», dice alla Stampa. E dalla parte di quella ragazza sta tutto il pubblico, che quando lei parla esulta, le finisce le frasi, applaude, la incalza. Di lui, invece, la gente in sala ha compassione. «È un enorme sollievo che gli spettatori, alla fine dello spettacolo, mi dicano che lui lo perdonano, perché io proprio non volevo fare uno spettacolo contro gli uomini. Anzi».
Guzzanti, i maschi sono in crisi o sono così da sempre e, semplicemente, ora li vediamo?
«Sì, ora li vediamo, e pretendiamo che siano diversi. E questa è una cosa che li sconvolge e li fa vacillare, perché per secoli si sono sentiti dire: sei perfetto così, sì, menami, e aspetta che ti preparo il pranzo così quando vai in ufficio a guadagnare il triplo di me, sei in forze».
E come pretendiamo che siano?
«Forti e rassicuranti, affidabili e sensibili, ambiziosi ma fedeli, passionali e mai volgari, lavoratori e casalinghi, leali, presenti, padri ma non mammi, giocosi e virtuosi, sempre aperti all’ascolto. In una parola, donne».
O forse, tutte le cose che le donne non hanno più voglia di essere?
«Ma che succede se una donna smette di essere disponibile, gentile, paziente, in ascolto, e tutte le cose che ci hanno insegnato a essere per agevolare le relazioni, o anzi proprio per renderle possibili? Succede che si autocolpevolizzano e vengono colpevolizzate, e che restano sole, anche se sono in coppia».
E perché non vanno via?
«Perché nessuno va via. Mi premeva raccontare questo: il modo in cui ci obblighiamo a stare insieme, perché a un certo punto, dopo averne provate tante, sentiamo che il destino ci ha mandato la persona giusta e allora quella persona non la molliamo anche se è un serial killer. Perché ci sentiamo incompleti, insoddisfatti, perché siamo spaventati e pensiamo che da soli non ce la facciamo. Noi donne soprattutto. Autonome sì, sole mai, per carità».
Lei è timida?
«Beh, sì».
Perché ha esitato?
«Perché sto parlando solo dei fatti miei e questo spettacolo è pieno della mia vita».
Anche l’impotenza del personaggio maschile è autobiografica?
«Anni fa sono stata con un uomo che aveva questo problema, che poi non ho mai saputo se fosse fisico o mentale, non ho indagato, perché per fortuna non c’è stato il tempo».
La faceva soffrire?
«Certo che sì. E ricordo di essermi chiesta tutto il tempo: che diritto ho io? Mi vergognavo a dire: scusa, amore, ma io vorrei ogni tanto scopare. E siccome dall’altra parte non venivo ascoltata, da un certo momento in poi ho cominciato a sentirmi sporca».
Un maschio.
«Non vorrei dire che gli uomini giudicano le donne, ma...»
Ma lo vuole dire.
«Sì, lo voglio dire, perché lo fanno. Per loro, una donna deve essere disponibile a fare sesso, ma non deve chiedere di farlo. Non so se è un pregiudizio che abbiamo noi o la proiezione di un’aspettativa, ma so che il dubbio che se vogliamo fare l’amore, allora non siamo degne, siamo un po’ sbagliate, ci viene e non importa se ce lo hanno messo addosso le nonne o le deputate di Fratelli d’Italia o se arriva da qualcosa di congenito».
Ma questo dubbio lo fa dire a lui e non a lei.
«Perché quell’imbarazzo verso me stessa che tante volte ho provato, chiedendomi se fossi una specie di ninfomane, ho immaginato che lo provano anche gli uomini. Mi sono immaginata che davanti a una donna che chiede al compagno impotente di farsi curare, di andare da uno specialista, perché quello è il solo modo che ha di occuparsi della loro storia, ecco, quell’uomo potrebbe sentirsi in imbarazzo per lei, per il suo atteggiamento non raccomandabile, così poco femminile, incalzante: impresentabile».
Siamo diventate intolleranti verso la difficoltà maschile?
«Sì. Il patriarcato per gli uomini non è mai uno sconto di pena, anche se sappiamo bene che ha fatto del male tanto a loro quanto a noi, ma sappiamo anche che loro se ne sono approfittati. E quindi adesso facciamo un po’ come loro quando ci dicono: avete voluto la parità, ecco i risultati».
La prego, ci suggerisca una risposta efficace a questa scemenza.
«Semplice: la parità l’abbiamo certamente voluto, ma altrettanto certamente non l’abbiamo ancora avuta».
Ma lei si è messa dalla parte degli uomini quando ha scritto Secondo lei?
«Tantissimo. E mi sarebbe piaciuto interpretare lui anziché lei, perché lei l’ho già interpretata nella vita, ma soprattutto perché sono affascinata dalla innocente cecità e disperazione di un uomo che non può affrontare qualcosa che i suoi geni e la sua indole animale non vogliono affrontare. Lui dorme, e lei scivola nell’intercapedine, in un buco. Quando ho parlato con la scenografa, le ho detto che volevo rappresentare il vivere al di sotto dell’amore: una coppia che abita in una casa bellissima ma che sta sotto al pavimento, che si nasconde».
Con uno che paga l’altra pur di non parlare di quello che gli succede.
«Quando lei vuole parlare, affrontare, sviscerare, risolvere, lui le dice: no, ti prego, ti do 300 euro, perché le dice che vuole darle altro, che può offrirle tutto il resto, la stabilità, la lealtà, la spesa. E mi sembra molto affascinante la verità di questa fragilità, rispetto alla forza di lei, che resiste, e resta a lamentarsi, a dire ci penso io, a provare a fare qualcosa mentre lui non fa niente. E allora mi sono figurata queste donne pazze, stufe, energiche, che di notte con una chiave inglese smontano il pisello del marito e lo portano dal meccanico. Perché alla fine, dopo tanto riflettere notturno e tanta sofferenza e lotte e guerre, mi sembra che sta andando a finire come sempre e cioè che dobbiamo occuparci di tutto noi. Che dobbiamo finire frasi che gli uomini non vogliono finire, dar loro intenzioni che non hanno, combattere nemici solo nostri, dimostrare che siamo tutto: i maschi e le femmine».
A lei mancano “le cose da maschio”?
«Forse un po’ sì».
Ha visto che in Francia alcuni maschi hanno provato a fare il #metoo ?
«Ah sì? Affascinante. Non mi risulta però che le donne possano stuprare gli uomini».
Ha capito cos’è l’amore?
«No. Ma penso che sia amore quando non sono con mio figlio e sento che sto sbagliando. Lo so, è una cosa schifosa da dire».
Non schifosa: conservatrice. Dicono che quando si diventa madri, si diventa di destra.
«A me è successo di diventare insicura. Non ansiosa, ma timorosa di trasmettere a mio figlio i miei traumi, le mie paure».
Parliamo dell’amore non materno.
«È qualcosa di molto vicino a quello che proviamo a 19 anni, quando senti che l’altro ti rapisce. E non mi importa se una coppia che sta insieme da 60 anni mi dice che no, quello è solo innamoramento».
E ha capito cosa desidera?
«Andare a vivere in Danimarca, in un posto dove anche se ci si annoia di più, tutto funziona. Ho capito che non ne posso più di essere stanca, di vivere in un posto dove non funziona niente. E poi ho capito che più si invecchia e più si procede per esclusione. Capisco profondamente Jane Fonda quando diceva di aver avuto tre amiche tutta la vita e che erano persino troppe».
Tutti e due i suoi personaggi, ma soprattutto lui, dicono sempre “siamo una famiglia”.
«Perché da sempre la voglio, pur avendone avuto una fantastica ma sgangherata, con un padre e una madre che si sono separati appena sono nata. Tutte le volte che ho chiuso una storia, la difficoltà più grande per me è stata non vedere gli amici e i genitori del mio ex».
L’intelligenza l’abbiamo sopravvalutata?
«Sicuramente. Se sei intelligente, ci si aspetta che tu capisca tutto, anche le cose incomprensibili, e nessuno si scusa con te, anche se dovrebbe, perché tu hai cervello. Certo, il cervello non lo baratterei con “cuore allegro Dio ti aiuta”, ma mi piacerebbe che non fosse un boomerang».
Sa cucinare?
«Ho fatto numerosi tutorial su come bruciare le verdure». —