Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  marzo 28 Giovedì calendario

Ritratto di Francesco Paolo Sisto

Il gentiluomo Francesco Paolo Sisto, viceministro alla Giustizia, avvocato di conio berlusconiano, penalista di finissimo ricamo garganico-barese, eloquio al borotalco, sogna da sempre di riformare la Giustizia alla sua maniera: tagliando le unghie, la barba e i processi a tutte le magistrature inquirenti in circolazione, per lo più rosse, avvelenate dal protagonismo politico, se non direttamente da rintracciabili malanni mentali. Colpevoli, prima di tutto, di avere intralciato la luminosa cavalcata del santo Cavaliere con le trascurabili volgarità di accuse inconsistenti – la corruzione, i ricatti, le bugie, il sesso a tassametro, le truffe, i denari, la mafia – ma specialmente la frode fiscale che costò a Silvio l’illibatezza penale, e financo la definizione, in sentenza, di “delinquente”.
FPS se ne duole da allora. Anzi da prima. Intestandosi anche lui la prova suprema, quella dei 314 deputati che senza vergogna votarono la sicura discendenza di Ruby Rubacuori nipote di Mubarak. E a seguire, l’assalto alla scalinata del Tribunale di Milano – una Corazzata Potëmkin da armata bianca, con Maria Elisabetta Alberti Casellati in prima fila a impugnare il filo di perle – contro l’odiata Procura che inquisiva il loro sommo bene, negando ai suoi processi la bambagia del centesimo “legittimo impedimento”, dopo averne accordati 99: “Ecco la malagiustizia, povero Silvio!”.
Ne omaggia la memoria guidando, in questi giorni, la “Campagna di Bari” contro il sindaco Antonio Decaro, che prevede l’accerchiamento della città saldamente (e sorprendentemente, visti i tempi) nelle mani del centrosinistra antimafioso in vista delle malaugurate elezioni del prossimo giugno, la destra in grandi ambasce, visti i litigi fratricidi e l’assenza di un candidato spendibile. Dunque elezioni destinate alla certa sconfitta. Almeno fino a una manciata di giorni fa. Quando il signorsì del governo, Matteo Piantedosi, ministro dell’Interno, ha ordinato l’ispezione del Comune, in vista del suo commissariamento per “infiltrazione mafiosa”. Circostanza sollecitata da FPS e da tutto il manipolo dei deputati della destra pugliese che – per una volta nella loro vita, immaginiamo l’emozione – reclamavano l’intervento proprio della magistratura con procedura d’urgenza. Riunione fulminea e provvedimento ottenuto in tempi record. Benedetto da massima ridondanza mediatica. Compreso un selfie scattato nella sala del Viminale, il ministro Piantedosi sorridente al centro tavola, circondato dai suoi sodali di partito e di governo a preparare la festa di fuoco e fiamme alla giunta di Bari.
Andando in porto il rogo, le Comunali a Bari potrebbero slittare fino a farle confluire con le Regionali previste per il febbraio 2026. Tempo congruo per demolire Decaro, la sinistra intera, forse anche la città. Per poi estrarre un coniglio dal cilindro e farlo eleggere in gloria al governo. E al suo massimo esponente locale, il senatore di impero berlusconico-meloniano, il pluripremiato FPS. Vedremo.
È storia la sua storia. Prestigiosi natali lo accolsero nell’anno 1955, il padre Eustachio principe del foro di Bari. Buone scuole a seguire. Un po’ di Conservatorio a coltivare la passione del pianoforte. Un po’ di viaggi. Il pallino dell’arte. La laurea in Giurisprudenza, la toga di avvocato penalista. Una moglie in prima istanza, una compagna al secondo giro. Un figlio sulle orme del babbo, ma con il nome Eustachio del nonno a dirne il casato che cresce.
L’incontro fatale con la Luce del suo Signore avviene per tramite della nera ombra di Giampiero Tarantini, detto Giampy, il Gargamella delle Escort che da Bari volavano direttamente sui divani di Silvio, “l’utilizzatore finale” anche “se solo di baci” e blande utilità. Radicandosi a Bari il processo, ecco comparire FPS accanto a Niccolò Ghedini: due fuoriclasse della melina procedurale che di slittamento in slittamento, di rinvio in rinvio, sempre rivendicando l’immacolata innocenza di Silvio, hanno fatto sfiorire il processo fino all’ultimo sospiro utile. Degno del lutto nazionale.
Dal processo alla politica è l’ingaggio di un attimo. Nel 2008 inizia l’avventura alla Camera dei deputati, rivelandosi un Master chef delle migliori ricette delle leggi ad personam. Studia, cucina e vota tutto quello che prevede il menu azzurro. Dal Lodo Alfano alle norme sul legittimo impedimento, dalla legge Tremonti che abolisce l’imposta di successione a quelle contro Sky, concorrente di Mediaset.
Si spende contro il reato di abuso d’ufficio, in difesa di un “Paese che vive con il timore di essere indagato”. Tuona contro “i processi mediatici”, “le inchieste a orologeria” e “l’uso politico della giustizia”, salvo cavalcare tutte e tre le nequizie nel caso dell’assalto a Decaro, anche se mai lo ammetterebbe.
Quando è a Bari non frequenta salotti, ma suona il pianoforte in piazza. Compone canzoni come Onorevole Natale e i più fortunati l’hanno ascoltata dall’ugola di Al Bano, suo amico.
L’eventuale conflitto di interessi tra ruolo di avvocato di Berlusconi e funzione politica al servizio della Nazione lo considera poco più di un ritornello da scansare. Ne sorride quando diventa presidente della Commissione Affari costituzionali, poi sottosegretario alla Giustizia con il governo Draghi. Infine viceministro di Carlo Nordio, col quale condivide l’intero papello di riforme della Giustizia. La separazione delle carriere in primis. L’abolizione del traffico di influenze. L’abolizione della legge Severino e della spazza-corrotti di Bonafede. La stretta sulle intercettazioni. Il veto alla loro pubblicazione. La minaccia di guai ai giornalisti che disobbediscono. Lo stop ai processi mediatici. Compreso, si intende, quello che avrebbe voluto alimentare provando a imbucarsi in trasmissione da Santoro, anno 2011, per difendere a mani nude il suo Silvio dalle intercettazioni telefoniche su Ruby e le Olgettine. Non riuscì a entrare in Rai, quella volta, ma da allora ha rimediato altre cento.
Non considera il suo zelo un vizio, semmai una qualità. Gli serve a prender sonno, ogni volta che proclamandosi “partigiano della Costituzione” e irriducibile “nemico della mafia” fa finta di non sapere che dentro al partito fondato da Marcello Dell’Utri, ci sta comodo, come in una vasca da bagno.