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 2024  marzo 28 Giovedì calendario

Stralci dei “Dialoghi della fede” tra Martin Scorsese e Antonio Spadaro

Pubblichiamo stralci dei “Dialoghi della fede” tra Martin Scorsese e Antonio Spadaro, in libreria con La nave di Teseo.
Caro Scorsese, per te credere in Dio ed essere cattolico sono due cose diverse. Che cosa intendi?
A me interessa come le persone percepiscono Dio, o, per così dire, come percepiscono il mondo dell’intangibile. Ci sono molte strade, e penso che quella che si sceglie dipenda dalla cultura di cui si fa parte. La mia strada è stata, ed è, il cattolicesimo. Dopo molti anni in cui ho pensato ad altre cose, ho assaggiato questo e quello, mi trovo meglio da cattolico. Credo nei princìpi del cattolicesimo. Non sono un dottore della Chiesa, non sono un teologo in grado di ragionare sulla Trinità. E certamente non m’interessano le politiche dell’istituzione. Ma l’idea della risurrezione, l’idea dell’incarnazione, il potente messaggio di compassione e amore… quella è la chiave. I sacramenti, se riesci ad accostarti a loro, a farne esperienza, ti aiutano a stare vicino a Dio. Ora, sono un cattolico praticante? Se con ciò s’intende: “Sei uno che va abitualmente in chiesa?”, la risposta è no. Tuttavia fin da ragazzo mi sono convinto che la pratica non è qualcosa che avviene soltanto in un edificio consacrato e nel corso di certi riti a una certa ora del giorno. La pratica è qualcosa che accade fuori, sempre. Praticare, davvero, è fare qualsiasi cosa tu faccia, di buono o di cattivo, e riflettere su questo… Per me, tutto si riduce alla questione della grazia. La grazia è qualcosa che avviene nel corso della vita. Viene quando non te l’aspetti.
Hai affermato di avere vissuto sull’orlo della distruzione, di avere quasi toccato il fondo. Che cos’è la salvezza, secondo te?
Nell’autodistruzione si nasconde un inganno: per capire la distruzione devi distruggere te stesso. E quindi in qualche modo si tratta di una forma di arroganza, di orgoglio… e alla fine hai distrutto te stesso. Nel mio caso, sono uscito da un momento autodistruttivo della mia vita: credo di esserci finito dentro ingenuamente e di esserne venuto fuori in modo altrettanto ingenuo. Sono stato chierichetto e ho servito la messa ai funerali e nella funzione solenne del sabato per i morti. Un mio amico era figlio di un becchino. Ho visto morire la vecchia generazione venuta dalla Sicilia all’inizio del secolo, e per me è stata un’esperienza profonda. Quindi ho meditato molto sulla mortalità, non soltanto sulla mia. E a un certo punto mi sono fatto un po’ di male da solo. Ma poi ne sono venuto fuori, e il primo film che ho girato a quel punto è stato Toro scatenato. L’altro aspetto di questa questione è accettare se stessi, convivere con se stessi, sforzarsi di esercitare un influsso positivo sulla vita della gente. La ritengo una buona definizione di “salvezza”. Bisogna sforzarsi di essere quanto più buoni possibile, e quanto più ragionevoli e compassionevoli possibile.
Siamo molte cose, c’è il buono e il cattivo, c’è anche la violenza, e ce n’è molta nei tuoi film. Perché? Qual è stata la tua esperienza di violenza? Cosa ci insegna la violenza?
Sono cresciuto in un posto molto violento. Oggi molte persone crescono in luoghi molto violenti. Non sto parlando delle parti del mondo che sono in guerra, una cosa orribile. Parlo dei quartieri e di intere regioni di questo Paese dove tutti hanno un’arma. Non avrei mai pensato che potesse accadere, ma è successo. Quindi, è una vita estremamente violenta per molte persone. Nel mio caso, alla violenza che ho visto intorno a me e che ho vissuto si è sovrapposta la violenza emotiva: in un certo senso, è stato ancora più terrificante. Penso che ci siano due aspetti della violenza e della sua presenza nei miei film. Innanzitutto, il punto principale è chi siamo. La violenza viene da dentro di noi, fa parte della condizione umana. Negarlo non fa che prolungare la situazione e rimandare la resa dei conti. Dobbiamo riconoscere questo dato di fatto e poi affrontarla, così riusciremo a capire che è all’interno della nostra natura umana. Molte persone che ho incontrato sono indubbiamente miti, non hanno nulla a che fare con la violenza, forse la negano, forse semplicemente non la vedono nelle loro vite. Ma parlo in base alla mia esperienza, che è stata condivisa da molte persone che conosco: è essenziale capire che le cose stanno così, senza vergognarsene, e sforzarsi di superarne gli effetti. Circa vent’anni fa ero a Washington con il Dalai Lama. Stavo parlando con un monaco tibetano che viaggiava con lui e mi ha detto: ‘Ho visto il tuo film Gangs of New York’. Ho replicato: ‘Oh, temo che sia un po’ violento…’. E lui: ‘Oh, non dispiacertene, è la tua natura’. Improvvisamente mi sono molto commosso. Sì, potrebbe essere la mia natura. Va bene. Ma poi devo affrontarla. Dobbiamo sapere che ne siamo capaci. È lì che iniziamo a capirla… Trovo che quando ci allontaniamo dall’esperienza della violenza, ci rendiamo un cattivo servizio. Ci isola e, cosa più pericolosa di tutte, crea l’illusione che possiamo sradicarla, tenerla a bada e forse anche vaccinarci contro di essa. Quello che dobbiamo fare è capire e abbracciare la violenza in noi stessi… I gangster sono esseri umani, quindi non è una questione di gangster in sé, siamo tutti noi. È quello che noi siamo. Ovviamente è preoccupante ed è scomodo. La gente pensa: ‘Come posso essere messo nella stessa categoria di un assassino? Sono solo gangster, sono solo tossicodipendenti, sono solo malviventi’. No. Non puoi liquidare un’intera, grande fetta di umanità in questo modo. Siamo noi.