3 novembre 2022
Tags : Edward Luttwak
Biografia di Edward Luttwak
Edward Luttwak, nato ad Arad (Romania) il 4 novembre 1942 (80 anni). Economista e politologo. Consulente del Dipartimento di stato statunitense. «Diciamo che sono sempre pronto a esercitare la mia libertà di pensiero e di parola».
Vita Nato in una famiglia ebraica in Romania, naturalizzato statunitense. Ha studiato alla London School of Economics and Political Science e all’Università Johns Hopkins di Baltimora, dove ha ottenuto un dottorato in economia. Il primo incarico come professore è stato all’Università di Bath. Dal 2004 è diventato un consulente del Centro Internazionale per gli Studi Strategici a Washington. È anche consulente all’Ufficio del ministero della difesa, il National Security Council e al Dipartimento di Stato americano. È membro del National Security Study Group del Dipartimento della Difesa americano, e fa parte del Ministero del Tesoro giapponese, più precisamente dell’Istituto delle Politiche Fiscali e Monetarie. È nel comitato editoriale del periodico francese Geopolitique, della rivista inglese Journal of Strategic Studies, e del Washington Quarterly • «“Quando parlo dell’Italia non posso essere obiettivo. Ho dei legami troppo forti. Se succede qualche cosa di male in Norvegia, non mi riguarda proprio, me ne frego. Ma se vedo che in Italia le cose non vanno, allora no, allora mi arrabbio”. Scusi, ma i suoi legami con l’Italia dove nascono? “A Palermo sono arrivato alla fine degli anni ’40, avrò avuto sei o sette anni, in città ho fatto quasi tutte le elementari. Poi a Milano ho fatto la Quinta, ma è stato un disastro”. E in Sicilia come ci era finito? “È una storia lunga. La mia famiglia viveva nel Banato, una regione nel nord ovest della Romania. Era un miscuglio di genti, lingue e religioni: c’erano romeni, tedeschi, ungheresi, serbi. Di tutto un po’: cattolici, protestanti ed ebrei. Era una società talmente multinazionale che riuscì a sfidare le regole dell’Europa della Seconda guerra mondiale. I capi delle diverse comunità si misero d’accordo per rispettarsi ed evitare ogni persecuzione. Anzi, Arad, la città in cui sono nato, è l’unico posto dove gli ebrei sono addirittura aumentati: nel 1939 erano 9mila, nel ’45 erano diventati 14mila”. E in quel miscuglio lei che lingua parlava? “Con i genitori parlavamo in francese, ma allora la lingua letteraria di una famiglia della buona borghesia era il tedesco. I libri e le riviste che trovavamo nella nostra biblioteca arrivavano da Vienna e da Berlino. Poi naturalmente c’erano il romeno e l’ungherese. E per noi l’ebraico. La mia famiglia non è mai stata particolarmente praticante, andavamo in sinagoga nelle feste più importanti. Ma i miei genitori hanno sempre cercato di trasmetterci la tradizione familiare. Quando ci siamo trasferiti a Palermo, dove non c’era traccia di insegnanti di ebraico, era personalmente papà a farci lezione”. Dopo i nazisti, però, in Romania è arrivata l’Armata rossa. “Sì, mio padre era un commerciante ed era sempre sul chi vive. Ma per un po’ se l’è cavata, anche perché a Bucarest nei primi tempi c’era ancora il re. Poi, nel novembre del 1947, ha saputo che i comunisti erano pronti a prendere il potere con un colpo di Stato. Ha trovato una nave da crociera, forse l’unica di tutta la Romania, che era in partenza. In fretta e furia ci siamo imbarcati. Di lì a una settimana le frontiere sono state chiuse e sono rimaste chiuse per 40 anni. Pensi se avessimo tardato...”. E quindi l’Italia... “In quel periodo era impossibile sbarcare in Palestina, era proibito dagli occupanti britannici. Per questo siamo arrivati a Napoli. Stavamo all’Hotel Santa Lucia, in pieno centro. Poi mio padre ha deciso di trasferire la famiglia a Palermo”. Come mai? “Lo so, per un italiano di adesso sembra incomprensibile. Ma allora Palermo era una città splendida. Elegante, con una vita culturale ricca, un teatro dell’Opera importante, musicisti come il violinista Yehudi Menuhin che erano di casa. L’aristocrazia era internazionale e cosmopolita, i miei andavano a cena da Tomasi di Lampedusa. In più era la città più vivibile d’Europa: allora a Londra c’era ancora il razionamento di guerra, Milano era tutta bombardata”. Come vi siete trovati? “Come in una specie di paradiso. Mio padre si è messo a esportare arance e ha fatto dei bei soldi. Io mi godevo Mondello nelle lunghe estati siciliane. Ma tutto è finito quando a mio papà è venuta la morbosa passione dell’industria”. E cioè? “Era un uomo molto attento alle nuove tecnologie. Decise di puntare sulle materie plastiche, che stavano nascendo allora, e pensò che il posto in cui poteva aver successo era Milano. Così ci trasferimmo. La città era in pieno boom. Non riuscì a trovare nemmeno un magazzino per i suoi macchinari. Dovette costruirlo, in via Garian, in zona Washington. E le cose gli andarono bene, dopo il primo stabilimento ne costruì un altro vicino all’imbocco dell’Autostrada per Torino, poi un altro ancora a Brescello”. E lei? “A me le cose andarono malissimo. Fui bocciato due volte di fila in quinta con zero in condotta. Avevo perso i miei amici e facevo a botte con gli altri bambini che mi prendevano in giro perché arrivavo dalla Sicilia. E i miei genitori finirono per mandarmi all’estero, in un collegio vicino a Oxford. Lì però non ebbi problemi: non parlavo una parola d’inglese, ma la cosa è evidentemente meno grave che parlare con accento palermitano a Milano. Poi i bimbi con cui mi picchiavo non andavano a frignare dalla maestra come succedeva da voi. Da lì in poi ho sempre studiato in Gran Bretagna”. E i suoi rapporti con l’Italia? “A Milano avevo la famiglia: mio padre morì nel 1968, a 58 anni. È sepolto ancora lì. Dopo qualche anno mia madre si trasferì in Israele e anche i miei tre fratelli si sono dispersi per il mondo”. In Israele ha abitato anche lei... “Sì, mentre ero ancora in Inghilterra avevo ricevuto un’educazione militare in quella che chiamavano Territorial Army. Così nel 1967, appena prima della Guerra dei Sette giorni, mi sono arruolato volontario nell’esercito israeliano. Mentre Moshe Dayan entrava a Gerusalemme, io ero sul fronte della Galilea, nella zona del Golan. Poi ho iniziato la mia carriera professionale”» (ad Angelo Allegri) • «Il governo americano mi paga per avere le mie opinioni e io gliele do, ma non cerco il consenso» (a Matteo Carlietto) • «Lei è uno yankee guerrafondaio? “Io ho fatto tre guerre. Non sono un teorico. Ho usato fucili e perfino il bazooka. Ho opinioni non convenzionali che derivano dalla storia. L’Europa è una piccola parte del pianeta. Ed ha dominato il mondo economicamente e culturalmente. Non perché fosse un impero, erano piccoli stati rivali in tutto e in guerra. Il resto del mondo no. Nei grandi imperi non c’è spazio per i conflitti. La guerra distruggeva cose ma dopo si ricostruiva più e meglio. Uomini e donne facevano i bambini. Quando sono nato l’Italia da sola aveva più abitanti di tutto il Nord Africa. Oggi l’Egitto da solo ha più abitanti di Francia o Italia o Spagna. L’Europa ha abbandonato la guerra. Le armi nucleari non la rendono percorribile. Ed è rimasto un vuoto mai colmato. Perdita di energia. Di coraggio. Di natalità. L’Italia invecchia. Anche mentalmente. Giovani tassati che non fanno bambini per mantenere le pensioni dei vecchi che controllano il sistema. L’Europa, ha perduto il suo motore. Questa la filosofia» (a Fabio Dragoni) • Il Guardian ha parlato di un incarico che lei ha svolto per il Sismi, per identificare possibili terroristi in arrivo, e dice che lei è stato assoldato da Pollari e si è fatto affiancare da Calogero Mannino. “Il Guardian fa un pasticcio di cose vere e cose che non c’entrano niente. Il mio mestiere è quello di fare il consulente per i governi. Certo, ho lavorato per il governo italiano e ho lavorato per il Sismi. Ma non c’entrano Pollari o Mannino”. Sempre il Guardian parla del suo ultimo hobby: una fattoria grande come una regione che ha comprato in Bolivia. “Sì, al confine con il Brasile. C’è un po’ di giungla e un po’ di prateria. A volte guadagniamo qualche soldo, a volte ne perdiamo. L’obiettivo era di preservare anche ecologicamente l’area e a quello ci stiamo riuscendo. Pensi che sono seimila ettari e abbiamo tremila mucche. La media è di una mucca ogni 2 ettari. In Italia una normale azienda agricola avrà cento mucche su due ettari. Mica male come differenza, no?”» (ad Angelo Allegri) • «Famoso non solo per i suoi studi sulla “grande strategia” degli Imperi Romano e Bizantino, dell’Urss e della Cina, ma anche per il suo linguaggio diretto» (Maurizio Stefanini) • «Incapsulato nello sfondo di Washington, sempre alle sue spalle, con piccoli mutamenti di angolazione a seconda del collegamento e del fuso orario, Edward Luttwak è un punto fermo del nostro immaginario politico. L’aria da cattivo della Cia di un “paranoia movie” anni Settanta, tipo “I tre giorni del Condor”, Luttwak è un generatore di scenari a metà tra Deep State e oroscopo geopolitico: “Vi dico chi è davvero Giorgia Meloni”, “vi dico cosa accadrà dopo il voto”, “vi dico chi saranno gli uomini di Putin nel nuovo governo italiano”» (Andrea Minuz) • Nel 1976 pubblicò The Grand Strategy of the Roman Empire from the I Century AD to the Third , che generò polemiche tra gli storici, alcuni dei quali liquidarono Luttwak come un dilettante nel campo storico. Tuttavia, il libro è riconosciuto come seminale perché ha sollevato questioni fondamentali sull’esercito romano e sulla sua difesa della frontiera romana. Nel 1979 pubblicò il manuale Coup d’Etat. A pratical handbook, tradotto in 14 lingue, nel quale affermava: «Il colpo di stato consiste nell’infiltrazione di un settore limitato ma critico dell’apparato statale e nel suo impiego allo scopo di sottrarre al governo il controllo dei rimanenti settori» • Tra gli altri libri: Il fantasma della povertà. Una nuova politica per difendere il benessere dei cittadini, con Carlo Pelanda e Giulio Tremonti (Mondadori, 1995), La grande strategia dell’impero bizantino (Rizzoli, 2009), Il risveglio del drago. La minaccia di una Cina senza strategia (Rizzoli, 2012) • Sposato, un figlio • Appassionato di snorkeling • Imitato da Maurizio Crozza in Fratelli di Crozza («Io purtroppo in Europa sto vedendo un sacco di pacifisti. Tutti i film c’è momento di conflitto. Per apprezzare la felicità, devi passare attraverso la guerra. Conflitto riattiva la circolazione. E soprattutto limoni come se non ci fosse un domani»).