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 2021  febbraio 11 Giovedì calendario

Biografia di Vittorio Emanuele di Savoia

Vittorio Emanuele di Savoia, Napoli 12 febbraio 1937. Unico figlio maschio di Umberto II, re d’Italia (1904-1983) e della regina Maria José (1906-2001), nata Saxe-Coburgo Gota, principessa reale del Belgio. L’11 gennaio 1970 a Las Vegas (rito civile) e il 7 ottobre 1971 a Teheran (rito religioso) sposò Marina Ricolfi Doria dalla quale ha avuto Emanuele Filiberto. È, in linea dinastica, il successore al trono d’Italia, una volta che il Paese trovasse il modo di tornare alla monarchia (cosa che la Costituzione impedisce). Questo diritto, apparentemente indiscutibile, gli è stato tuttavia contestato più volte (anche a causa del suo comportamento) e da ultimo, formalmente, dalla Consulta dei senatori del Regno, che il 7 luglio 2006 lo dichiarò decaduto indicando in Amedeo di Savoia il successore. Vittorio Emanuele, secondo questo atto, si sarebbe escluso da sé sposando una non-nobile (Marina Doria) senza il consenso dell’ex sovrano. Il figlio di Vittorio Emanuele, Emanuele Filiberto, ha contestato, richiamandosi allo Statuto albertino e alla legge salica, la decisione in sé e il diritto formale della Consulta (un’associazione privata) a deliberare. Un’altra corrente di pensiero dice che Umberto II stesso pose fine alla monarchia dei Savoia facendo chiudere nella propria bara il sigillo reale.
Titoli Duca di Savoia, principe di Napoli, gran maestro dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata, dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, dell’Ordine Civile dei Savoia, dell’ordine al Merito dei Savoia, balì di Gran Croce dell’Ordine di Malta, di Gran Croce di Giustizia decorato del Collare del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, cavaliere dell’Ordine di Sant’Andrea, dell’Ordine di Aleksandr Nevskij, dell’Ordine dell’Aquila Bianca, di Gran Croce dell’Ordine di Sant’Anna, cavaliere di Gran Croce dell’Ordine di San Stanislao, di Gran Croce dell’Ordine del Salvatore, di Gran Croce del Reale Ordine di Nostra Signora della Concezione di Vila Viçosa, etc…
Titoli di testa «Io sono tirchio» (ai magistrati che lo interrogavano).
Vita Nasce alle 2.30 del pomeriggio con il nome di Alberto Carlo Teodoro Umberto Bonifacio Amedeo Damiano Bernardino Gennaro Maria. Viene battezzato il 31 maggio nella cappella del Quirinale davanti a cinquemila invitati. Grande assente Benito Mussolini • «Ho pochi lontani ricordi della mia prima infanzia. Vivevo con i miei genitori e le mie sorelle al Quirinale, mentre i miei nonni, il Re e la Regina, vivevano a Villa Ada. Dal Quirinale alla Salaria e viceversa si andava in carrozza passando davanti alla caserma dove i corazzieri tenevano un’aquila viva per mascotte» [ad Alessandro Feroldi, Lampi di vita] • Passava la maggior parte del suo tempo al Quirinale: «Non sapevo come erano fatte le vie di Roma» [Feroldi, cit.] • «Quando giocavo in giardino, uno dei miei divertimenti preferiti era raccogliere le schegge delle bombe della contraerea. Per noi bambini era eccitante quando di notte suonava l’allarme dei bombardamenti. Si prendevano le coperte e ci si radunava in una specie di rifugio sotterraneo» [ibid.] • A tre anni, mentre scorrazzava su una bici a rotelle nei giardini del Quirinale, andò a sbattere dritto contro Mussolini. La madre, antifascista, gli disse: «Non ti preoccupare. Ora vai in bici e non fare brutti incontri» [ibid.] • «Noi all’armistizio abbiamo lasciato l’Italia con mia madre e le mie sorelle, ci siamo rifugiati in Svizzera perché Hitler voleva prendermi come ostaggio, e poi siamo tornati per poco, fino al referendum. Quando siamo stati al Quirinale, a corte, comunque era tempo di guerra: c’era il razionamento, ogni tanto qualche bombardamento su Roma. Di notte i corazzieri ci portavano nel rifugio e per noi in realtà allora era un divertimento. Mio padre era sempre in giro in uniforme, indaffarato. A volte cenavamo insieme. Mia madre stava più tempo con noi. Era anche presidente della Croce rossa e organizzava grandi colazioni per bambini e mutilati di guerra nei giardini del Quirinale: noi dovevamo servire a tavola, c’era allegria» [a Eleonora Barbieri, Giornale] • Il 5 giugno lascia Roma per Napoli: «Ricordo che, quando abbiamo lasciato il Quirinale, ero dispiaciuto perché avevamo un asinello, si chiamava Albania e non ho mai capito perché, sia detto senza sottintesi: ci tenevo molto, era bello, grigio, con le orecchie nere» [a Barbieri, cit.] • L’ultima notte italiana la passa con sua madre e le sue sorelle a villa Rosebery • Il 6 giugno, un giovedì, alle 5 e 45 del mattino, lascia Napoli per Lisbona a bordo dell’incrociatore Duca degli Abruzzi: «Avevo nove anni quando ho lasciato l’Italia. Poi ho capito, ho seguito tutta l’evoluzione degli eventi, ma sono rimasto italiano. Sono napoletano e del Napoli» [Barbieri, cit.] • «Abbiamo portato solo una valigia con i vestiti. All’inizio ci hanno prestato una casa in Portogallo, a Sintra: non c’erano né l’elettricità né l’acqua calda, usavamo i lumini a petrolio. Non c’era nulla» [a Barbieri, cit.] • Dopo un anno da Sintra si spostano a Cascais • Quando Maria José decide di andare in Svizzera per farsi curare gli occhi - la vista le era calata a causa di una trasfusione fatta male - Vittorio Emanuele la accompagna: «Dopo qualche mese mia madre riacquistò completamente la vista. Fu allora che decise di restare in Svizzera e che io rimanessi con lei» [Feroldi, cit.] • Passarono l’inverno a Crans Montana e poi si trasferirono in una fattoria a Merlinge dove Vittorio Emanuele scorrazzava nella tenuta con una bici prestatagli da un fattore: «A Natale poi me ne regalarono una rossa tutta per me» [ibid.] • «Mia nonna era la regina Elisabetta del Belgio. Ogni tanto andavamo a trovare la sua famiglia e alloggiavamo a Palazzo Reale. Una volta siamo andati in macchina, mia madre e io, da Ginevra a Bruxelles: è stato molto bello» [a Barbieri, cit.] • Oltre a frequentare le migliori scuole internazionali, Vittorio Emanuele ebbe due precettori, Jacques Piccard prima, Renato Cordero di Montezemolo, poi • «I nostri genitori non erano in grado di educare figli perché non lo sapevano fare, perché erano sempre stati allevati in preparazione della corona, […] formazione per la quale era previsto che vi sia un certo numero di persone che si dedicano ai figli fino alla maggiore età» • In collegio a Ginevra non era uno studente modello. Finiva sempre in punizione. I suoi amici si divertivano a chiamarlo «il principe decaduto» • Ottimo sciatore partecipava a diverse gare con ottimi risultati. Correva anche con il bob • Sciava con Zeno Colò •
Motori Appassionato di motori, imparò a guidare prima di avere l’età per prendere la patente grazie all’autista di sua madre • «Ricordo che un giorno mentre stavo arando il fattore mi lasciò provare a guidare il trattore. Per un po’ lo condussi tranquillo […] poi mi resi conto che non sapevo frenare e così continuai ad arare fino a sbattere contro l’inevitabile albero» • Ha guidato – e più volte riparato – una Topolino, una Fiat 6 cilindri, la Peugeot di Montezemolo, una Vespa che aveva ribattezzato Honolulu, una Rumi. A 18 anni gli regalano una Fiat 1100 Tv e una 600 usata alla quale truccò il motore: «Visto che lo conoscevo, mi misi in contatto con il signor Carlo Abarth per farmela potenziare». La chiamò Cocò. Poi quando andava all’università – si è iscritto a Scienze politiche e finanza – Montezemolo gli regalò una Jaguar XK 150 Le Mans. Toccava i 240 chilometri orari. Poi ci fu la roadster 150 e la Ferrari • «Allora gli amici lo chiamavano “Toto la Manivelle” (potremmo tradurre Vittorino il Volantino) per via della sua eccezionale capacità di perdere il controllo del volante e uscire di strada, con gran danno per le carrozzerie delle sue belle auto. Divenne presto cittadino del mondo. Prese dunque a collezionare conchiglie. Ma, poiché non gli bastavano né le fuoriserie (per le avventure di terra), né le conchiglie (per quelle di mare), prese anche il brevetto di pilota (per le avventure di cielo) e acquistò un biplano con una testa di tigre disegnata sulla fusoliera» [Barbacetto, Fatto] • «Fu Montezemolo ad avviarmi alla carriera di pilota». Il primo areo che pilotò era un Piper, poi un Cessna 172 e da ultimo un Bucker Jungmann, un areo degli anni Trenta usato dalla Lufwaffe durante la seconda guerra mondiale [Feroldi, cit.] • Dice che in vita a sua ha fatto solo due incidenti, a tre anni quando sbatté contro le gambe di Mussolini e un altro più di vent’anni dopo, quando finì contro un albero con la Ferrari. Stava andando con Marina da Ginevra a Losanna. Pioveva, il manto stradale era scivoloso e la strada era stata sbarrata con assi di legno messe lì per fermare le auto davanti a una voragine. Vittorio Emanuele all’ultimo sterzò e imboccò una stradina e la Ferrari arrestò la sua corsa contro un albero. I due finirono in ospedale, lui si fratturò un ginocchio, lei le caviglie e un braccio: «Per i giornalisti io sono uno che sfascia le auto ma in realtà ho avuto sono questi due incidenti» [ibid.] • Oltre a bici, moto, auto e arei ha guidato anche motoscafi. Con un tre punte motore Alfa Romeo 9000 ha gareggiato nella Ginevra-Evian. Arrivò secondo • «Dopo le gare sul lago di Ginevra mi ritrovai a provare una gran scafo sott’acqua, si chiamava mesosfafo e lo ha ideato Jacques Piccard, il suo primo precettore • Altra passione, le immersioni subacquee. Nel 1959 ebbe un incidente. Si stava immergendo con Piccard quando, a causa dell’ossigeno che andava esaurendosi nelle bombole, fu costretto a risalire troppo in fretta. Solo quando fu messo in camera di decompressione riuscì a riprendersi.
Finanza «È un buon manager, può rimettere ordine nell’economia italiana» (Silvio Berlusconi nel 1994) • «“Questa grande dinastia, che per secoli ha regnato su Chambery e dintorni…» – come ironizzava Carlo Emilio Gadda – ha trovato seppur tardivamente un uomo capace di compiere grandi imprese (finanziarie), di andare finalmente oltre i confini, di renderli inesistenti anzi, con l’aiuto di qualche società offshore. Infine divenne uomo d’affari: «per ricostruire il patrimonio di famiglia». La sua professione può essere definita in molti modi aulici. Ma per capirsi meglio basterà la definizione di mediatore d’affari, piazzista di lusso, ponte nobile tra grandi imprese occidentali e satrapie orientali, sempre all’ombra di qualche strana consorteria politico-affaristica. I quarti di nobiltà di Vittorio Emanuele costituiscono il valore aggiunto, sono la griffe che garantisce, se non una particolare abilità manageriale, almeno l’accesso ai personaggi utili, alle lobby giuste. Così negli anni settanta il signor Savoia fu preso sotto l’ala dal conte Corrado Agusta, l’ex marito di Francesca Vacca Graffagni, allora padrone di una fabbrica d’elicotteri e mercante internazionale d’armi. Agusta, in verità, era conte per modo di dire: non per antico lignaggio, ma per tardivo decreto di un Savoia ormai prossimo all’esilio portoghese. Al conte Corrado era utile avere vicino un nobile vero, un principe di casa reale, amico o parente o comunque ben introdotto nelle dinastie grandi acquirenti dei suoi prodotti. Lo scià di Persia, per esempio: Vittorio Emanuele era suo amico di famiglia, e in più all’epoca lo scià Reza Pahlevi corteggiava Gabriella di Savoia. Insomma, Vittorio Emanuele riuscì a piazzare allo scià una quantità di elicotteri e armi, guadagnandosi, come ogni piazzista, le sue brave provvigioni» [Barbacetto, Fatto] • Dopo la morte dello scià tutti rescissero i contratti con lui e dovette lasciare Teheran • Con Agusta lavorò per 15 anni, ha lavorato anche in Spagna per delle ditte di Ansaldo e in Giordania. Da ultimo anche in Bulgaria e in Austria.
Italia La prima volta che venne in Italia andava all’università. Fu Montezemolo a portarlo: «Decise di andare a Torino e di portarmi con lui. Prendemmo la sua automobile, una Peugeot 203 […]. Sul passaporto non cera scritto Savoia ma conte di Sarre». Andò a Racconigi, Superga e Torino. Da qui scrisse una cartolina a sua madre. Quando i suoi lo seppero Maria José rideva mentre il padre, benché Montezemolo se ne assunse tutta la colpa, si infuriò. Aveva infranto una promessa • Un’altra volta per andare in Iran fu costretto a prende un areo che faceva scalo a Fiumicino • Un’altra, quando Marina era incinta, fece salire il padre su un elicottero Agusta e gli fece sorvolare per un’ora e mezza tutto il Piemonte. «Mio padre capiva che stavamo passando in Italia, seppur in volo, ma non diceva niente […]. È significativo che alla fine del volo non abbia detto una parola, ha solo ringraziato il comandante pilota Frixia per il bel giro. A me non ha detto niente: o era commosso, o non sapeva cosa dire, non era preparato a vedere quello che aveva visto» [Feroldi, cit.].
Il ritorno «L’opinione pubblica italiana cominciò a parteggiare per il rientro dei Savoia in Italia: “Ormai sono politicamente inoffensivi”. Vittorio Emanuele su questo concordava pienamente: ha sempre disprezzato politica e politici, al massimo gli potevano essere utili per i suoi affari da esule regale. Merito anche del discreto lavorìo diplomatico tessuto dalla madre, la regina Maria José, che culminò nell’incontro segreto a Ginevra con il presidente Pertini. Maria José era un’interlocutrice credibile, non aveva mai celato la sua disapprovazione nei confronti delle scelte di casa Savoia. Non seguì Umberto a Cascais, in Portogallo: la chiamarono “regina rossa” per le sue vaghe simpatie socialiste, la contestatrice di casa Savoia. Le sinistre decisero che era venuto il momento di ripensare alla XIII disposizione transitoria della Costituzione che vietava agli eredi maschi dei Savoia di rimettere piede in Italia, e poi Vittorio Emanuele aveva dichiarato pubblicamente di rinunciare al trono, di accettare la Repubblica italiana e la sua costituzione. La suoneria del suo telefonino era l’inno di Mameli. “Vorrei poter morire da italiano in Italia”, disse una volta, ma poi continuò a preferire la sua Villa Italia, in riva al Lemano (Ginevra) • In base alla XIII disposizione transitoria della Costituzione italiana, Vittorio Emanuele visse in esilio fino al 15 marzo 2003. Abrogata dal Parlamento italiano quella disposizione (Vittorio Emanuele ed Emanuele Filiberto ebbero a giurare per iscritto e senza condizioni fedeltà alla Costituzione e al presidente della Repubblica, avallando l’inesistenza dei titoli nobiliari – così come scritto nella XIV disposizione transitoria – e dunque rinunciando anche al titolo di principe), tornò in Italia. L’accoglienza – a Napoli, aeroporto di Capodichino – fu assai poco cordiale: gruppi di varia estrazione politica salutarono i Savoia al grido di «Traditori» e «Jatevenne» • Tutto era pronto per il gran rientro. Ma forse non tutti lo volevano. C’era chi non si fidava della sua conversione repubblicana. L’occasione per verificarlo fu un lugubre anniversario, quello delle leggi razziali del 1938, sottoscritte dal nonno Vittorio Emanuele III. Il Tg2 volle intervistarlo. Gli chiesero: “Principe, cosa pensa di quella firma che suo nonno appose sotto il decreto delle leggi razziali volute dal Duce? Non crede che sia giusto scusarsi?”. Vittorio Emanuele arrossì come sempre gli capita quando si trova in difficoltà. In fondo è un timido. Farfugliò: “No, perché io non ero neanche nato”. Invece, a dire il vero, era nato l’anno prima, il 12 febbraio del 1937. Ma il punto era un altro: Vittorio Emanuele reclamava da anni il ritorno in Italia, si era persino rivolto alla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Non riusciva però a sconfessare quel gesto, e quindi la Shoah. In verità, al principe mancava il senso della Storia, un vuoto culturale che lo metterà sempre con le spalle al muro. Provò a rimediare: “Quelle leggi non erano poi così terribili”. Giustamente scoppiò il putiferio» (Leonardo Coen) • Il 27 maggio 2004, alla cena offerta dalla regina Sofia di Spagna, dopo le nozze tra Felipe e Letizia, sentendosi dare una pacca sulla spalla dal cugino Amedeo d’Aosta lo stese davanti a tutti con due diretti in faccia. Sdegno universale, articoli di esecrazione su tutta la stampa mondiale e scuse di Marina Doria.
Futuro Nel 2020 Vittorio Emanuele di Savoia e il figlio Emanuele Filiberto hanno fatto sapere al Corriere la loro decisione di designare come capo del casato – e quindi potenziale erede al trono – Vittoria, 16 anni, primogenita tra le due figlie del principe. È la prima volta infatti in mille anni di storia che Casa Savoia concede a una donna la possibilità di diventare erede al trono :«Amo le mie nipoti, scherzo con loro, parliamo dei loro studi. Racconto loro della storia d’Italia e di casa Savoia e mi ascoltano con due occhi così, sono molto interessate».
Processi «Negli anni Settanta ebbe noie grosse a causa d’un traffico d’armi scoperto dal giudice Carlo Mastelloni di Venezia ma fu il magistrato che finì per avere la peggio: venne trasferito a Roma, aveva osato ficcare il naso su affari che coinvolgevano lobbies troppo potenti e protette. Tutto si concluse nella solita bolla di sapone. Di certo, in quel giro c’era chi spendeva il nome di Vittorio Emanuele, e qualcuno gli avrà pur detto che poteva farlo: del resto, l’erede al trono dei Savoia si era fatto una reputazione vendendo allo Scià Reza Pahlevi, di cui era buon amico, elicotteri prodotti dal conte Corrado Agusta che poi riapparivano armati di tutto punto in Sudafrica, a Singapore, in Malesia, a Taiwan, triangolazioni che l’Onu metteva spesso sotto accusa. Lui si difendeva: sono solo un intermediario d’affari, vendo persino aerei da carico russo. Andò peggio una sera d’estate del 1978 in quel di Cavallo, isolotto per vacanze miliardarie e per faccendieri ozianti come Silvano Larini, amico di Silvio Berlusconi e cassiere dei conti segreti di Bettino Craxi. Vi erano affinità, diciamo così, da affiliazione: alla P2 di Licio Gelli, visto che il principe vi figurava col numero 1621. Savoia e massoneria, un’antica storia di affari e intrallazzi, avevano scritto maliziosamente i giornali. Quanto a Larini, Vittorio Emanuele lo frequentava, e anche questa coincidenza, più tardi rivalutata da Mani Pulite, avrebbe dovuto allarmare chi non crede al caso e pensa sempre al peggio (Andreotti docet). Ma stavolta la cronaca si interessò di un’altra burrascosa amicizia, quella con Nicky Pende, playboy e figlio di uno dei medici più noti e ricchi di Roma: Vittorio Emanuele era geloso della bellissima moglie Marina Doria, quella notte si sbronzò e litigò furiosamente con Nicky a tal punto che scese sottoponte della sua barca e ne riemerse armato di un fucile. Sparò e colpì un giovanotto tedesco, Dirk Hamer. Era il 18 agosto del 1978. Il ragazzo non aveva vent’anni. Morirà, dopo atroci sofferenze (gli amputarono persino una gamba nel tentativo di salvarlo), il 7 dicembre. Fu una vicenda oscura. Ma qualche anno dopo, nel dicembre del 1991, al processo di Parigi fu assolto dalla Chambre d’accusation: niente omicidio volontario, solo una lieve condanna a 6 mesi con la condizionale per porto abusivo di arma da fuoco» (Leonardo Cohen) • Il 16 giugno 2006 fu arrestato a Varenna (Lecco), su disposizione del gip Alberto Iannuzzi del Tribunale di Potenza, inchiesta e richiesta del pm Henry John Woodcock: lui e un’altra dozzina di indagati furono accusati di essere coinvolti, a vario titolo, in un presunto giro di tangenti per ottenere dai Monopoli di Stato certificati per l’installazione delle cosiddette «macchinette mangiasoldi», attività che avrebbe anche favorito il riciclaggio di denaro di provenienza illecita tramite «relazioni con casinò autorizzati e, in particolare, con il Casinò di Campione d’Italia». Operazioni rese possibili, dicono le carte della procura, da un «sistematico ricorso allo strumento della corruzione e del falso» • Negli otto giorni trascorsi in carcere a Potenza, Vittorio Emanuele raccontò al suo compagno di cella e coimputato nella medesima inchiesta Rocco Migliardi (Messina 15 febbraio 1953) il delitto di Cavallo. Disse tra l’altro, riferendosi ai giudici francesi del processo: «Anche se avevo torto, devo dire che li ho fregati!». Spiegò come aveva preso il fucile e come aveva colpito con una pallottola «trenta zero tre» il giovane Hamer. In cella c’era però una microscopia e queste frasi finirono sul tavolo del giudice, che ascoltò anche il seguente giudizio su di sé e sui suoi collaboratori: «Sono dei poveretti, degli invidiosi, degli stronzi. Pensa a quei coglioni che ci stanno ascoltando... Sono dei morti di fame, non hanno un soldo, devono rimanere tutta la giornata ad ascoltare, mentre probabilmente la moglie gli fa le corna». In base a questa intercettazione, il gip Rocco Pavese si rifiutò di revocare il divieto d’espatrio imposto a un imputato così chiaramente pieno di «cinismo e disprezzo per la legittima attività investigativa e giurisdizionale». La moglie Marina Doria cercò di giustificare il marito dichiarando che certamente, mentre pronunciava quelle frasi, aveva bevuto • «Moglie davvero tradita quella di Vittorio Emanuele, il principe di Savoia che via cavo “ordinava” ragazze da trovare negli hotel di lusso. Molte di loro furono individuate, rintracciate, intervistate su gusti e abitudini del principe, ma soprattutto sulla sua sbandierata tirchieria. Ai fidi collaboratori che si preoccupavano della soddisfazione Reale, sua Altezza raccomandava infatti i prezzi modici: “Duecento euro e non di più!”» (Fiorenza Sarzanini) • Il 27 marzo 2007 la Procura di Como ha archiviato il procedimento. Anche la Procura di Roma ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta sul presunto giro di tangenti ai Monopoli di Stato • Nel luglio 2008 la Procura di Potenza ne ha chiesto il rinvio a giudizio per «associazione per delinquere finalizzata a commettere più delitti contro la pubblica amministrazione, la fede pubblica ed il patrimonio, in particolare un numero indeterminato di delitti di corruzione e falso». Sua reazione: «Finalmente potrò dimostrare la mia innocenza davanti a un giudice terzo». Nel corso dell’inchiesta, la Procura di Potenza ha trasmesso alle procure di Roma e Como, competenti per territorio, specifici filoni d’indagine • Ora vedrebbe bene una strada con il suo nome a Potenza: «Certo, me lo devono! Era una città che non conosceva nessuno, l’ho lanciata io. Vorrei che mi dedicassero la strada che porta alla prigione. La targa la pago io, eh...» (a Laura Laurenzi) • Su richiesta di Woodcock, il ministero della Giustizia italiano ha inoltrato a quello francese le intercettazioni sul delitto Hamer, anche se il principe le considera frutto di una grande menzogna. «Nella gamba di quel ragazzo sfortunato fu trovato un proiettile di P38, io impugnavo una carabina. Non sono chiacchiere, ma fatti» [Giornale 27/7/2011] • «Ho avuto un processo della Corte d’Assise di Parigi e sono stato assolto al cento per cento» • «Io Woodcock l’ho incontrato solo una volta e abbiamo parlato di cani. Gli piacciono. Non è antipatico. È solo che voleva arrivare a fare qualcosa. E non ne ha azzeccata una» • Nel 2007 presentò col figlio una contestatissima richiesta di risarcimento danni allo Stato italiano per l’esilio, poi ritirata (260 milioni di euro oltre alla restituzione dei beni confiscati dallo Stato quando nacque la Repubblica italiana).
Amori La sua prima fidanzata fu Dominique Claudel, nipote del poeta Paul. Lei aveva 16 anni, lui 18 • La prima volta che conobbe Marina aveva dodici anni: «In montagna, in una stazione di sci, da ragazzini. Poi ci siamo persi di vista perché lei girava per i suoi campionati di sci nautico». Si ritrovarono anni dopo a Montecarlo. Dopo tredici anni di fidanzamento si sposano a Las Vegas: «Ero là per lavoro, per la Agusta, perché c’era un nuovo elicottero da valutare. Comunque ho detto a Marina: senti, ma perché dopo non ci sposiamo? Ci ha fatto da testimone Corrado Agusta. Rito civile». Poi con il rito religioso a Teheran: «Bella chiesa cristiana. Quando c’era lo Scià funzionava tutto molto bene, il Paese era molto aperto» • Pare che Umberto II fosse contrario alle nozze, notizia più volte smentita da Vittorio Emanuele: «Come ogni genitore, mio padre voleva il meglio per suo figlio. Ma poi si è accorto che Marina era perfetta per me» [a Barbieri, cit.] • Il 22 giugno 1972 nasce Emanuele Filiberto: «Io prima avevo seguito un corso all’università per prepararmi al parto» [Feroldi, cit.] • «Ho realizzato tutto quello che volevo, nel mio piccolo: il brevetto da pilota, il matrimonio, la famiglia, la casa qui [a Gstaad] e a Cavallo, sul mare; e poi siamo uniti, anche con le mie sorelle, checché se ne dica, con cui ci vediamo spesso».
Amici Oltre allo scià di Persia è stato amico di Richard Nixon, Yasser Arafat, il Negus Neghesti, Alexander Onassis, Charlie Chaplin, Alfred Hitchcock.
Religione Molto religioso «Cattolico apostolico romano e praticante» • «Prego. La preghiera c’è sempre stata, anche nei momenti difficili: la malattia, gli incidenti... Tutto ho avuto. Ho anche conosciuto Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco».
Politica «Voto. Ovviamente non dico per chi, perché è segreto […]» • Non ho mai voluto fare politica. Sono convinto che un partito monarchico non abbia ragion d’essere. Se c’è un re, non deve esistere un partito, perché un re è super partes e risponde al popolo. Sono sempre stato d’accordo con mio padre che diceva: “La monarchia non sarà mai un partito”» [Feroldi, cit.].
Titoli di coda «Io non sono storico, ma la storia la so bene, perché l’ho vissuta».