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 2019  novembre 11 Lunedì calendario

Intervista a Leonardo Marino

«A chi non si è pentito dico: Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno». «Vorrei dire subito ai lettori una cosa. Non credo che Luigi Calabresi sia stato ucciso da tre pallottole. Io credo che il commissario Calabresi sia stato ucciso da piombo sì, ma dal piombo di certi giornali, che per lui avevano coniato da tempo, ed in esclusiva, gli insulti più atroci, i marchi più roventi ed infami che avevano allestito un retroterra ideale per un delitto. Ci fu un tempo in cui Milano era letteralmente tappezzata di scritte che dicevano “Calabresi assassino“». Questa è una parte dell’articolo che Enzo Tortora scriveva giovedì 18 maggio 1972 per La Nazione, all’indomani dell’efferato omicidio del commissario di polizia (270 mila lire lorde, guadagnava) avvenuto a Milano in via Cherubini, di fronte alla sua dimora. Così fino al 1988, quando Leonardo Marino, già attivista del movimento extraparlamentare «Lotta Continua», si pentì e si accusò di aver preso parte all’omicidio del commissario, assieme a un altro attivista, Ovidio Bombressi, su mandato di due capi del movimento, Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani. Sono passati trent’anni da quella confessione e incontro Marino a Bocca di Magra, provincia di La Spezia, il luogo dove vive e lavora. Lo incontro assieme a Luciano Garibaldi, giornalista e storico, colui che ebbe la curatela del libro di Gemma Capra, la moglie del commissario Calabresi, Mio marito il commissario Calabresi. Diario inedito della moglie dopo 17 anni di silenzio (Edizioni Paoline, 1990). Marino, l’omicidio Calabresi fu frutto di un clima particolare nel nostro Paese? «In quegli anni ci fu un vero e proprio linciaggio nei confronti del commissario. A creare in noi la convinzione che Calabresi fosse un nemico fu l’atteggiamento dei grandi nomi della cultura di quel tempo. Non passava settimana che L’Espresso non pubblicasse pagine intere contro di lui». Era L’Espresso il giornale della “buona borghesia”: cosa importava a voi aspiranti rivoluzionari? «A maggior ragione ci interessava, perché finché questo “odio” restava confinato al giornale Lotta Continua risultava in qualche modo ridotto. Diverso vederlo sui grandi giornali. Questo ci faceva dire: “Allora è tutto vero !”». Un ragionamento da riferire anche al famoso “manifesto degli 800 “? «Sì, quell’atto d’accusa contro Calabresi cui aderirono i nomi più importanti della cultura, da Scalfari alla Cederna, da Umberto Eco a Tinto Brass, per arrivare a Pierpaolo Pasolini». Conobbe qualcuno di questi firmatari? «Incontrai a Roma Pierpaolo Pasolini, che finanziava i gruppi extra parlamentari. I dirigenti di Lotta Continua mandavano noi operai a prendere i soldi, era più chic! In quell’occasione incontrai Pasolini». Si ricorda il contenuto di quel manifesto? «“Il processo che doveva far luce sulla morte di Giuseppe Pinelli si è arrestato davanti alla bara del ferroviere ucciso senza colpa. Chi porta la responsabilità della sua fine Luigi Calabresi ha trovato nella legge la possibilità di ricusare il suo giudice...”: questo era l’inizio del manifesto degli 800, nella sostanza una sentenza di condanna nei confronti di Calabresi». Dei suoi vecchi “compagni” che ha accusato ha più sentito qualcuno? «Assolutamente no, e non ci tengo per nulla dopo tutto il fango che mi hanno buttato addosso. Credo che lo stesso valga per loro: molti di loro hanno sempre pensato che io dicessi cose false. A parte Giampiero Mughini, che ha sempre confermato che Sofri sapesse dell’azione contro Calabresi». Dopo il suo pentimento ha subìto qualche atto fastidioso nei suoi confronti? «Sono stato dipinto, da quella stessa “intellighenzia”, come un infame, quando in realtà io mi sono accusato e il mio gesto è stato coraggioso e di verità. Ho avuto la fortuna di avere al mio fianco mia moglie, che ci ha lasciati poco tempo fa, e i miei figli Adriano e Giorgio. Tutta la mia famiglia mi ha sempre sostenuto e guai, per i miei figli, se qualcuno osa attaccarmi». Cosa fanno oggi i suoi figli? «Adriano si è laureato in Giurisprudenza e vive a Londra, con moglie e figli, dove svolge la professione di avvocato. Giorgio è qui a Bocca di Magra, lavora con me nel nostro chiosco che fa crêpes da molti anni». Lei ha mai chiesto scusa alla vedova del commissario Calabresi? «Le scrissi una lettera ma non ebbi risposta, anche se scrisse la postfazione del libro Così uccidemmo Calabresi (Ares Editore), da me scritto». Leonardo Marino prende il suo libro e mi legge il passo in cui la signora Gemma lo perdona: «Io ho perdonato Leonardo Marino perché è un vero pentito; non era in carcere e non ha deciso di pentirsi per avere sconti di pena. Viveva a casa sua e non esisteva e su di lui non esisteva nessuna indagine in corso... Marino, che dopo essersi costituito ha subìto le peggiori angherie, è un uomo che ha molto sofferto e siccome la sofferenza, anche se di origini diverse, accomuna, io mi sono sentito molto vicino a lui e ho sentito che dovevo perdonarlo». Parole importanti, quelle della moglie di Calabresi: l’hanno fatta stare meglio? «Certamente, è stato importante per me». E i suoi figli, quando lei si è costituito, sono stati oggetto di angherie? «Hanno sofferto anche loro, ma hanno anche ricevuto tanti attestati di solidarietà. Un senatore del Pd che aveva il figlio che andava a scuola con mio figlio Adriano è sempre stato molto accogliente con lui». In questi anni non ha più avuto contatti con nessuno? «Se da una parte il mio pentimento nasce da un profondo tema interiore e di coscienza, dall’altra era l’unico modo per “uscire dal giro”». Cosa vuol dire? «Che se rimani “uno di loro”, alla fine ti chiedono di fare qualche rapina o qualche cosa di brutto e, se magari hai bisogno di soldi, lo fai anche. In questo modo ho rotto definitivamente con chiunque, nessuno mi ha mai più cercato. Rischiavo di fare la fine di Maurizio Pedrazzini, un compagno morto tanti anni dopo durante una rapina». Il giudice Pomarici credette sempre alla sua confessione: anche con lui non ebbe alcun incontro? «A dire la verità, un giorno qui a Bocca di Magra vidi un uomo scendere dalla macchina e venire verso il nostro chiosco: era Ferdinando Pomarici, mi venne incontro e mi salutò. È sempre stato un uomo giusto e schivo a qualsiasi tipo di visibilità. Un uomo che stimo molto». Chi invece non stima? «Sono un cattolico e di profonda fede, non esprimo giudizi. Mi piace però ricordare il necrologio che la moglie del commissario scrisse sui giornali: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Quel necrologio lo dedico a quelle persone che mai si sono pentite di essere il substrato di odio che ha causato l’omicidio del commissario Calabresi».