Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  novembre 10 Domenica calendario

Ritratto di Robert Altman

La prima volta che ho incontrato Robert Altman è stato a un cocktail in suo onore al festival cinematografico di Chicago. Era l’ottobre del 1990, e il regista era stato invitato con Vincent & Theo. Arrivai con grande emozione al cocktail, Altman per me era un mito, e mi accorsi subito che era molto nervoso: le critiche non erano state molto buone, e in cuor suo pensava che non fossero ingiuste, così almeno mi sembrava. Era in compagnia della terza moglie Kathryn, la quale invece sorrideva a tutti, partecipando a ogni conversazione e anticipando ogni sua esigenza. Mi apparve come una donna di notevole forza e indipendenza, ma mostrava insieme una grande dedizione nei confronti del marito. Non posso dire che Altman mi fece una grande simpatia, quella prima volta, e lui non si sforzò di apparire affabile con gli ospiti, accorsi lì per celebrarlo.
Era un punto di riferimento per almeno due generazioni di cineasti, e per molti versi un rivoluzionario, ma anche in quel gruppo di ammiratori c’era la consapevolezza dell’incostanza dei suoi risultati, che oscillavano tra l’eccellente e il fallimentare. Mai mediocre, però anche le opere meno felici appaiono errori di un autore autentico e pieno di talento e ambizione. Mi accorsi che Altman stava parlando del progetto successivo, un film sulla Hollywood di quegli anni, ed ebbi la sensazione che avesse già scaricato Vincent & Theo: solo in seguito mi resi conto che era sempre distaccato rispetto alle sue opere, anche le migliori. Era The Player il nuovo film di cui parlava, con cui sarebbe tornato a una forma smagliante, confermata da Short Cuts, uno dei suoi massimi capolavori. Questa sua incostanza espressiva si rifletteva anche nell’approccio con le persone: l’ho visto gentile, spiritoso ed estremamente affabile, ma anche scostante, gelido e scontroso. Lo incontrai nuovamente dieci anni dopo, in occasione di una mostra che avevo curato su Fellini al Guggenheim. Si presentò in compagnia di Kathryn e Donald Sutherland, il quale spiegava che Fellini lo costringeva a recitare pronunciando solo dei numeri. Altman annuiva divertito, considerava Fellini un genio, e si divertiva a vederne disegni erotici nella Rotunda del museo. Ovviamente non ricordava affatto chi fossi, ma rispose con grande calore quando gli dissi quanto amassi Nashville, I Compari e Il Lungo Addio. Mi affrettai a dire anche MASH, e lui sorrise, capendo che lo avevo detto solo perché Sutherland era nei paraggi.
Il trapianto di cuore
Riapparve nella mia vita qualche anno dopo, grazie ad Arnold Weinstein, un meraviglioso librettista di cui eravamo entrambi amici. Arnold organizzava cene in cui veniva spesso anche Arthur Miller, e ogni volta cercavo di capire cosa avessero in comune due artisti così diversi e così felici di stare insieme. Una sera chiesi perché nei suoi film amasse l’improvvisazione e lui teorizzò che «controllare l’arte è un’illusione». Miller non era d’accordo e iniziarono una discussione accorata: era bello vederli insieme, con Altman sempre dalla parte del provocatore: «se faccio un film che piace a tutti significa che è terribile» o «le parole non dicono quello che si pensa: le usiamo per convincere la gente o farci ammirare. La verità è sempre segreta». Su una cosa era d’accordo: il lieto fine, così in voga a Hollywood, è «ridicolo». Altman era il più feroce: «ci mostrano lui che la prende in braccio ed entrano in casa per vivere felici e contenti, ma nella realtà dopo tre settimane comincia a picchiarla, lei chiede il divorzio e lui scopre di avere il cancro». 
Nonostante l’ironia sempre presente nei suoi film aveva una concezione della vita molto cupa, e scoprii in quel periodo che aveva subito un trapianto di cuore. Sentiva profondamente la fragilità della sua condizione fisica, ma ciò non gli impediva di continuare a lavorare spasmodicamente, anzi in qualche modo ne accentuava la frenesia, come se sentisse il bisogno di esprimersi prima della fine. Negli ultimi dieci anni ha continuato a dirigere film meravigliosi come Gosford Park, sbagliati come Il dottor T e le donne o deliziosi come Radio America nel quale il suo pupillo Paul Thomas Anderson si prestò a lavorare come seconda unità, pronto a subentrare in caso di emergenza.
Del suo cuore trapiantato parlò pubblicamente pochi mesi prima di morire, quando ricevette un tardivo, ma meritatissimo Oscar alla carriera. Quando disse «ho molto da dire, ma c’è un orologio che mi dice che ho poco tempo» risero tutti, pensando che si riferisse ai tempi contingentati dalla cerimonia. Solo gli intimi compresero di cosa stesse parlando, specie quando ringraziò il proprio medico e concluse: «Ho il cuore di una giovane trentenne, e quindi questo premio mi è stato dato troppo presto». 
L’Oscar
Qualche giorno dopo, a New York mi confidò: «non mi hanno dato l’Oscar per Gosford Park perché mi ero schierato pubblicamente contro la guerra in Iraq». Non credo fosse il vero motivo, ma è incredibile che l’Academy quell’anno avesse preferito A beautiful mind. In quella stessa occasione scoprii che non era molto soddisfatto di The Player: «Hollywood è molto più orribile di quella che si vede nel film, ma se avessi mostrato quanto è sadica, crudele e concentrata unicamente su se stessa, il film non sarebbe interessato a nessuno». Disprezzava Hollywood: il copione di MASH gli era arrivato dopo che 15 altri registi lo avevano rifiutato, e, una volta terminato, la Fox era convinta di andare incontro al disastro. Era tuttavia consapevole che la libertà assoluta poteva trasformarsi in un’altra trappola: raccontava amaramente che i suoi più grandi insuccessi, critici e commerciali, erano stati i film che aveva prodotto in prima persona.
Negli ultimi tempi continuava a fumare marijuana in pubblico, raccontando di aver fatto abbondante uso di droghe: non c’era nulla di provocatorio, riteneva che fosse la cosa più normale del mondo. Liberal con punte di radicalismo, combatteva ogni forma di puritanesimo ma amava sinceramente il proprio paese, di cui era il primo a vedere le distorsioni e le brutture. Aveva vissuto lunghi periodi a Parigi, rimanendo tuttavia orgoglioso che un suo antenato fosse a bordo del Mayflower. Per il suo paese aveva combattuto nella II Guerra Mondiale a bordo di un bombardiere, e negli ultimi tempi si chiedeva quante persone fossero morte per le bombe sganciate dal suo aereo. Non aveva paura a parlarne, alternando questi ricordi con le discussioni sul cinema, con cui cercava la verità, o almeno l’illusione, attraverso grandi film corali, dove ognuno parla sovrapponendosi all’altro. Sentiva sempre di più intorno a sé un rumore assordante, caotico, e cercava, come Fellini nella Voce della luna, il silenzio. «Tutti i miei film parlano della stessa cosa - spiegò una volta -: lottare, culturalmente e socialmente, per rimanere vivi».