Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  novembre 10 Domenica calendario

Nella Gerusalemme indiana la moschea torna agli indù

Questa storia inizia nel 1528, quando l’imperatore islamico Babur ordina di costruire la moschea di Babri Majid nella città di Ayodhya, nell’Uttar Pradesh. E forse finisce adesso, dopo quaranta giorni di dibattiti tra i giudici della Corte Suprema che hanno cercato di risolvere un problema della storia dell’India, ma che rappresenta bene anche il suo presente. La moschea, dice la sentenza, dovrà diventare un tempio induista.
Difatti, i periti dall’Ente Archeologico Indiano hanno decretato che sotto le fondamenta della moschea potrebbe esserci una struttura «non islamica» e quindi gli indù avrebbero diritto a reclamare il terreno che, secondo loro, è il luogo di nascita di una delle divinità più importanti dell’induismo, il dio Rama, avatar di Visnu, simbolo di eroismo e abnegazione e protagonista del famoso poema epico Ramayana. Ai musulmani verranno donati due ettari di terra per ricostruirsi la moschea in città. Prove che il dio Rama nacque lì? «Si sente che c’è il suo spirito», dice Triloki Nath Pandey, rappresentante terreno della divinità che, per una curiosa legge indiana, è vera e propria persona giuridica. 
In attesa della decisione, per timore di nuove sommosse e massacri sono state arrestate preventivamente cinquecento persone, mobilitati dodicimila agenti e chiusi negozi e scuole, mentre la polizia monitora i social media, chiedendo di cancellare i tweet più provocatori.
Ora Babri verrà rinominata Ramjanmabhumi, il luogo di nascita di Rama. È così stata mantenuta la promessa elettorale del partito al governo, il BJP dei fondamentalisti indù di Modi, che fanno festa. Ma sottotono. È lo stesso Modi ad invitare alla calma con un tweet: «non ci sono vincitori né vinti». Non la pensano così molti dei 200 milioni di islamici indiani che hanno accolto il verdetto tra rabbia e rassegnazione.
Torniamo a quel 1528. Siamo all’inizio dell’impero dei Moghul che controllarono buona parte dell’India fino al 1800. La moschea viene attaccata dagli indù già nel 1853, ma resta in piedi. La East India Company la divide in due. Nel cortile interno i musulmani, in quello esterno gli indù. Nel 1949, dopo l’indipendenza dal Regno Unito, fedeli indù piazzano un idolo di Rama nella moschea. «Comparso per miracolo», dicono. Seguono scontri e morti. Il contenzioso va avanti per trent’anni, fino a quando nel 1986 l’allora primo ministro Rajiv Gandhi, asseconda la crescente rivalsa induista sul passato dell’impero islamico, consente l’accesso della moschea agli indù e fa trasmettere alla tv di stato una serie sulla Ramayana. Questo, secondo alcuni storici, inizia ad erodere il laicismo, promuovendo una «religificazione» del Paese. Ne approfitta il BJP che nel suo programma aggiunge anche la «ricostruzione» del tempio di Rama. Nel 1992, una folla di duecentocinquantamila indù rade al suolo la moschea, innescando una sommossa in tutta l’India con duemila morti, in gran parte musulmani.
Da allora si apre un contenzioso legale tra le due religioni per questo pezzetto di terreno di Ayodhya, soprannominato la Gerusalemme d’India. Nel 1996, anche grazie alla promessa di abbattere la moschea, il BJP vince e va al potere. Ci torna nel 2014 con Modi che, questa primavera, nella campagna per la rielezione, promette: riconquisteremo il tempio di Rama. E stravince.
I simboli del passato islamico, come lo stesso Taj Mahal, sono invisi da molti fondamentalisti indù che, dopo essersi liberati di alcune icone dell’impero britannico, ora vogliono eliminare il peso del ricordo dei Moghul. Le associazioni musulmane costituitesi parte civile nel processo, dopo una prima razione di rabbia, hanno annunciato che non insisteranno. Ma restano le preoccupazioni. Dopo la mano di ferro adottata in Kashmir, stato a maggioranza musulmana ora territorio alle dipendenze di Delhi, e la minacciata espulsione di quasi 2 milioni di «cittadini sospetti» nell’Assam, in gran parte musulmani, la marcia induista non accenna a rallentare. Come dice Haj Mahboob Ahmad, rappresentate musulmano nel caso di Ayodhya: «La nostra paura è che ora i fondamentalisti abbatteranno altre moschee». E che la guerra di religione non abbia fine.