Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  novembre 10 Domenica calendario

Storia della Dc raccontata da Follini

Come qualcuno ricorderà a suo tempo ci eravamo augurati in parecchi di «non morire democristiani»: e allora oggi non rimane che dire «ben ci sta!». Soprattutto dopo aver letto questo libro di Marco Follini ( Democrazia Cristiana. Il racconto di un partito , Sellerio) il quale della Dc fece a tempo a vivere le ultime stagioni e di essa ora ripercorre non tanto le vicende quanto l’ethos e l’antropologia della sua classe politica. Non si tratta dunque, di un libro di storia o di ricordi (anche se questi non mancano). È piuttosto una rievocazione: soffusa inevitabilmente di un’indulgente tenerezza e di qualche malinconia, come capita quando il pensiero ritorna alle cose del passato che non ci sono più, e che già solo per questo ci sembrano più degne e più belle di quanto forse in realtà non fossero. Inutile aggiungere poi che in queste pagine il racconto della Democrazia cristiana diviene com’è ovvio anche il racconto di una certa Italia di ieri che fu quella del cattolicesimo diffuso ed egemone. Un’Italia dimessa, «nascosta e appartata», un Paese di piccola borghesia con il salotto «buono» ricoperto di fodere bianche (come quello di casa Andreotti a corso Vittorio nella testimonianza dell’ingegner De Benedetti), di amori clandestini, di abiti alla buona, di omosessualità tenute rigorosamente segrete (anche se si trattava perlopiù di un segreto di Pulcinella che tuttavia – oh gran bontà dei deputati antiqui! – a nessuno veniva in mente di violare). 
Altrettanto ovviamente il racconto della Dc e dei suoi molti meriti e qualità – su cui oggi si registra un’inedita vastità di consensi – è insieme il racconto di com’era la politica all’epoca della Prima Repubblica, di cui quel partito fu una sorta di epitome. A cominciare dalla capacità che gli fu propria di far convivere al proprio interno molte anime (come ci furono infatti molte Democrazie cristiane così per l’appunto ci furono pure molti Partiti comunisti e molti Partiti socialisti), alla cauta discrezione usata dalla Dc nei confronti della Chiesa nel tentativo in buona parte riuscito di tenere distinte le proprie sorti dalle sue, di sottrarsi alle sue troppo pressanti richieste. Ma anche qui: non cercò di seguire a un dipresso la medesima strada pure il suo grande antagonista, il Pci, alle prese con l’arcigna Potenza che ne sorvegliava le mosse dalla lontana Mosca? La verità è che in un Paese a sovranità limitata come il nostro, specie in quel tempo, l’italica scaltrezza dissimulatrice doveva toccare necessariamente vertici da manuale.
Disseminati lungo l’arco di un cinquantennio, ritratti acutissimi (tra tutti spicca quello di Aldo Moro), aneddoti, ricordi, definizioni fulminanti (perfetta quella per i «dorotei»: «Una sorta di società anonima del notabilato dell’epoca») si susseguono in pagine di scrittura sapiente e piacevole, piene di osservazioni interessanti. Ad esempio quella circa la continua personalizzazione e contrattazione all’interno del partito che caratterizzava ogni decisione politica, facendo della Dc il partito inevitabilmente antidecisionista per antonomasia, oppure quella circa la contraddizione sempre più grave che venne crescendo durante la Prima Repubblica tra la lentezza rarefatta della politica e dei suoi riti da un lato e la velocità del cambiamento sociale dall’altro. 
Sono pagine che comunque, pur cercando di non sottrarsi alle questioni storiche più generali che pone la vicenda democristiana, tuttavia lo fanno in un modo quasi sempre indiretto ed evocativo: ciò che alla fine, però, rischia di apparire vago ed elusivo (un modo molto «democristiano» avrebbero detto i critici di un tempo). Non solo, ma almeno in un caso lo fanno in un modo che risulta anche sorprendentemente sbrigativo, direi. Definire infatti come fa Follini una «leggenda» il consociativismo Dc-Pci, ridurlo a un semplice «gioco di riguardi incrociati e di interessi comuni», mi sembra davvero che sfidi un po’ troppo oltre che un ormai ricco lavoro di scavo storiografico anche il ricordo di alcuni milioni di italiani. 
Venendo alle ragioni della triste fine della Democrazia cristiana, le molte, parziali spiegazioni che ce ne vengono qui proposte lasciano tuttavia insoddisfatto il desiderio che ce ne venga offerta una più di fondo e generale, o perlomeno una gerarchia organizzata (cioè concatenata) delle cause varie che condussero alla crisi. Che dalla lettura del testo di Follini appaiono ridursi in sostanza ad una. Al fatto che nata da una precisa ed esatta idea dell’Italia la Democrazia cristiana, però, da un certo punto in avanti non riuscì più a farsene alcuna per il futuro, non riuscì più a elaborare alcuna visione circa l’avvenire del Paese che corrispondesse ai suoi sogni e ai suoi bisogni. Pensò che tutto dipendesse dalla «conventio ad excludendum», che il problema fosse quello di «portare a destinazione il sistema democratico», cioè di favorire in qualche modo l’ingresso al governo del Partito comunista. Ciò su cui Follini sembra concordare: ma a distanza di tanti anni oggi possiamo forse dire che un regime dell’alternanza era con il Psi che bisognava cercare di costruirlo, non con un comunismo italiano dalle cui ceneri era destinato a nascere, come è nata, solo una sinistra minoritaria, confusa e divisa, senza idee e senz’anima. Ma dei socialisti curiosamente nel libro di cui stiamo dicendo non si fa menzione neppure una volta: una sorta di «damnatio memoriae» proclamata dal pulpito almeno in teoria più inatteso.