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 2019  novembre 10 Domenica calendario

Il volto di Gorbaciov e la caduta del muro di Berlino

Nella notte che ricorda la più magica di tutte le notti, un volto emerge dal buio della memoria. È un volto segnato dall’età, deformato dalle malattie, velato di malinconia. Ma soprattutto è un volto solcato dalle ferite della Storia, il volto di un eroe tragico che come Icaro pensò di poter volare vicino al sole, ma finì per distruggere se stesso e l’opera che voleva salvare.
Se si potesse ridurre a una sola persona, a un solo carattere il Novecento e quelle che Paul Klee chiamava le sue «Harte Wendungen», le svolte brusche, questa sarebbe molto probabilmente Michail Gorbaciov. Trent’anni dopo la caduta del Muro di Berlino, che segnò la fine anticipata del secolo breve, la figura drammatica dell’ultimo leader dell’Unione Sovietica ci ricorda il destino rovesciato di un gigante senza pace, il comunista che senza volerlo seppellì il comunismo, il patriota che con le migliori intenzioni scavò la fossa allo Stato fondato da Lenin. 
«Non si poteva più andare avanti allo stesso modo», dice Gorbaciov nell’intervista a Der Spiegel. Già, la perestrojka come passo obbligato, ultimo, inevitabile tentativo di riformare un sistema ormai ossificato, in bancarotta politica ed economica. Non fu buon marxista, in fondo, Michail Sergeevich: al contrario di quanto avrebbero fatto i compagni cinesi, che aprirono al capitalismo e strinsero le viti sulla democrazia, cominciò dalla sovrastruttura politica (la glasnost, le opposizioni, il diritto a manifestare) e si mosse male e poco sulla struttura economica, con mezze riforme e aperture al mercato confuse. E intanto, costretto dalla pressione del riarmo dell’America reaganiana e sperando negli aiuti dell’Occidente cui aveva promesso di togliere il nemico, cedette pezzo per pezzo i cardini della potenza sovietica, fossero gli euromissili, le armi strategiche e quelle convenzionali o le aree di influenza.  
Quando nel 1989 il generale Sergey Akhromeyev incontrò il nuovo capo delegazione americano Richard Burt per la prima seduta negoziale del Trattato Start, gli disse senza mezzi termini che Gorbaciov aveva tradito il comunismo e che lui, che aveva combattuto a Stalingrado, non avrebbe mai permesso che l’Unione Sovietica venisse umiliata in quella trattativa. Non andò così. Ma l’aneddoto, mai rivelato, conferma che quella di Gorbaciov era la ricetta perfetta per essere odiato in patria: i russi stavano peggio, vedevano la loro superpotenza umiliata e per la prima volta in quattro secoli potevano anche lamentarsi a voce alta. 
Eppure Michail Gorbaciov non si pente. E questo gli fa onore. Al settimanale tedesco dice che non si potevano negare i diritti di libertà e democrazia ai popoli vicini, i polacchi, i cechi, gli ungheresi, I tedeschi dell’Est. La frase con cui ammonì Erich Honecker, l’eterno leader della Ddr, innescando la sua fine, risuona ancora oggi: «La vita punisce chi arriva in ritardo». 
Su una cosa l’ex presidente sovietico ha in ogni caso ragione da vendere. Quando afferma che dopo la fine della Guerra Fredda, i nuovi leader non hanno saputo creare una nuova e moderna architettura di sicurezza in Europa, Gorbaciov dice una verità elementare. Così come quando critica l’affrettato ampliamento a Est della Nato. Ma nella visione di Michail Sergeevich c’è ancora spazio per il futuro. Tra l’Occidente e la Russia la retorica sta cambiando, dice a Der Spiegel. Forse è la speranza di avere ragione con trent’anni di ritardo, forse è l’inguaribile l’ottimismo che tutto non sia stato inutile. Comunque andrà, avremo sempre verso quest’uomo un debito di gratitudine.