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 2019  novembre 10 Domenica calendario

Se la regìa ammazza l’opera

La logica ci dimostra che dovremmo ascoltare con soddisfazione le opinioni e i giudizi che siano in armonia con ciò che sentiamo e pensiamo. Ma la prevedibilità e la monotonia non ci entusiasmano, e talvolta anche l’espressione reiterata di ciò che anche noi pensiamo finisce per annoiarci, per disturbarci, per stufarci. Diciamo: «Sì, è vero, sono d’accordo…», ma poi, quasi sgarbatamente, voltiamo le spalle in faccia a chi, armato di ottime intenzioni, crede di essere in piena armonia con il nostro pensare. 
Ci accorgiamo che quelle dichiarazioni desiderose del nostro assenso non ci fanno compiere un solo passo avanti. Siamo sempre là, sulla linea di partenza dell’indignazione. E poi? Perché non si parte? Perché non riusciamo a udire il colpo di pistola? («Niun mi tema!». Intendevamo: il colpo della pistola, caricata ovviamente a salve, di chi dà lo start alla corsa dei 200 metri piani! Che cosa avevate capito?). Non si parte, poiché i commenti degli altri indignati sono sussurrati con la mano alla bocca, per non offendere, non si sa mai, un funzionario, o magari il direttore artistico, o addirittura il Sovrintendente che passeggia in platea durante una pausa. Vorremmo dire: «Sì, d’accordo, ma perché queste cose non le dite a voce spiegata e in pubblico? Perché non le diciamo insieme, per essere qualcuno anche nella considerazione di un eventuale ministro, o di un giudice della Corte dei Conti, dal momento che uno solo, sia pure armato di logica inflessibile e di argomenti documentatissimi, agli occhi di un qualsivoglia gestore del Potere è appunto uno solo, e perciò non conta un fico secco?». Anzi, sovente lo diciamo alzando la voce per farci sentire dall’ipotetico “Generalmusikdirektor” o giudice o ministro.
Notate la nostra strategia stilistica? Alla maniera dei nostri precursori Thomas Mann e Marcel Proust, pur lasciandola imprecisata all’inizio, abbiamo gradualmente rivelato la location del nostro frammento di sceneggiatura mediante semplici opportune key-words, come “platea” o “Sovrintendente” (gli anglicismi, lo ammettiamo, non rientravano negli usi di Thomas Mann né di Marcel Proust). Insomma, usando uno stilema raffinatissimo da par nostro, consistente nel togliere una brattea dopo l’altra, stiamo parlando del Teatro d’Opera. Questa volta, il discorso è lungo, ed esige almeno una breve serie di puntate. Ci avviciniamo a una constatazione amarissima. Parliamo dell’Opera, ma siamo fedeli alla nostra definizione essenziale (ci permettete di dire: “ontologica”?) di Teatro d’Opera. Esso è il connubio tra la musica, miracolo della Natura, e il teatro, miracolo della Storia. Qui un corollario è d’obbligo: se la produzione teatrale di opere con musica fosse decisa, organizzata, controllata e realizzata da soggetti pensanti che conoscano più che bene la musica e il teatro, la loro rispettiva origine e metamorfosi storica, l’origine e la metamorfosi del loro intreccio e della loro simbiosi, correremmo assai meno il rischio mortale di vedere e ascoltare spettacoli orrendi, stupidi, ridicoli quando pretendono di essere un pugno nello stomaco. Eppure, l’insoddisfazione alquanto filistea ma sostanzialmente legittima della massima parte del pubblico non incolto non riguarda le imperfezioni della prassi esecutiva, del canto operistico o dell’esecuzione strumentale o della direzione d’orchestra (l’incultura musicale della massima parte del pubblico è oramai troppo diffusa e profonda, e molto difficilmente uno che non sia un musicista vero e sperimentato se ne accorge), bensì gli abusi, gli arbitrii e le infelicissime trovate della maggior parte delle regie d’opera oggi in auge. Ecco l’amarissima constatazione: attraverso una propria istintiva reazione di pollice verso, il pubblico del teatro d’opera non si cura troppo dell’esecuzione musicale e della drammaturgia posta in atto dai cantanti-attori (quest’ultimo, grande problema artistico e musicologico non ancora studiato a sufficienza!), essendo tale pubblico in gran parte di generazione sessantottina o post-sessantottina e perciò quasi tutto musicalmente analfabeta. 
Esprime disappunto quasi soltanto per le scelte della regia. È peggio che amarissimo constatare che il compositore, il librettista, il drammaturgo o il narratore fonte del librettista, sono “espropriati” nelle discussioni o nelle chiacchiere tra il pubblico cosiddetto colto. L’autore è il genio che non si affida al libretto e alla musica, bensì alla propria personale “ispirazione” e all’idea che spiazza tutto. Un’opera non è di Dumas figlio, Piave, Verdi, bensì di Prosekken; non di Wagner, ma di Schlecht; Aida non è di Ghislanzoni, ma di Ilbeltemporimenini. Il pubblico reagisce giustamente alla regia di una Francesca da Rimini di Zandonai, la cui scena finale non mostra Francesca e Paolo avvinghiati e trafitti dallo stocco di Gianciotto, bensì un po’ disorientati alla vita di una spada di Damocle (o “di Sofocle”, come disse la ministra). Sì, ma qual è il vero motivo di protesta del pubblico? In nome di quale conoscenza esatta? Il pubblico aveva letto Inferno V e la tragedia di D’Annunzio? La non conoscenza del pubblico non è in qualche misura complice di siffatti registi?
Rinviamo le risposte alle puntate successive. In questo primo appuntamento abbiamo tentato la ricognizione di ciò che è malato. Poi analizzeremo le cause, e le cause delle cause.