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 2019  novembre 10 Domenica calendario

A colloquio con Murakami Haruki

Nelle prime pagine del suo recente libro dedicato alla passione per la musica (Assolutamente musica) dice di non essere una persona particolarmente socievole, benché con una certa curiosità per gli altri non facile da notare. Ma a stare accanto a Murakami Haruki, nell’incontro esclusivo riservato alla Domenica del Sole 24 Ore, unico tête à tête italiano di questo autore che non ama i contatti ravvicinati con la stampa e con i media, ciò che immediatamente si percepisce è una grande concentrazione e un’attenzione cauta e insieme prensile come quella dei gatti che tanto ama. Milioni di copie di libri venduti nel mondo, traduzioni planetarie, una devozione dei fans simile al tifo da stadio, come si è visto nel Teatro di Alba quando a ottobre ha ricevuto il Premio Lattes Grinzane, con i ragazzi che facevano una specie di ola e gli adulti che improvvisavano una standing ovation: il settantenne (quest’anno) scrittore giapponese sembra essere consapevole e austeramente soddisfatto di questo successo ma allo stesso tempo sinceramente distante. Ci tiene a precisare che la sua quotidianità non è cambiata, l’amore per la musica, la corsa e la cucina. Ci tiene anche a sottolineare che cerca di seguire abitudini regolari per tenersi in salute e che si sente lontano dalle mitologia della sregolatezza letteraria: «Per scrivere ci vuole regolarità e soprattutto energia». 
Ecco, se chiacchierando viene fuori una convinzione o quasi una teoria artistica è che un libro è un’opera di energia. Nel periodo in cui è vissuto in Italia, dopo aver lasciato Palermo un po’ turbato dal maxiprocesso alla mafia che proprio in quel periodo si stava svolgendo, a Roma aveva scelto di abitare nel quartiere accanto al Vaticano perché così tutte le mattine poteva fare jogging intorno a Castel Sant’Angelo. Dell’Italia non conosce molti altri luoghi e quando è stato tra le colline delle Langhe, festeggiato dalla Fondazione Bottari-Lattes, le ha trovate rassomiglianti a quelle della Toscana, dove lui e la moglie ogni tanto dalla capitale si spingevano a caccia di vini prelibati. Ma né Langhe né Toscana sono paesaggi simili a quelli sempre un po’ misteriosi dei suoi romanzi, tantomeno al bosco pieno di segreti dell’ultimo, L’assassinio del commendatore, con la strana buca nel terreno che sembra una caverna mistica e che ricorda certe immagini della letteratura classica giapponese, per esempio quelle del grande poeta e monaco del XVII secolo Basho. 
Qui, dall’evocazione dell’illustre letterato, comincia il nostro colloquio sull’arte del romanzo. Murakami respinge però con educata fermezza ogni riferimento alla tradizione. «Mio padre insegnava letteratura, e anche mia madre era una professoressa, così ho letto in casa tutti i classici giapponesi. Ma, seppure inconsapevolmente, ho subito avuto il desiderio di differenziarmi dai miei famigliari, anzi di proteggermi dalle loro scelte. La mia formazione letteraria si è svolta altrimenti: leggevo tantissimo gli autori moderni europei. Era un modo per difendere la mia indipendenza». Indipendenza anche dagli scrittori giapponesi contemporanei, quelli famosi della generazione precedente, da Tanizaki a Mishima, e quelli suoi coetanei. «Molti scrittori della mia età o un po’ più giovani hanno scelto una narrativa autobiografica, concentrata sulle loro esperienze e sentimenti personali. E hanno avuto un grande successo: più erano sinceri con le loro storie – che so, il rapporto con la moglie o con l’amante – e più erano apprezzati. Invece per me parlare della mia vita è noioso. La mia vita è ordinaria, poco interessante. La mia fiction è differente e lontana dalla mia realtà quotidiana, tutto nasce dall’immaginazione. La mia vita è comune, la mia immaginazione libera e imprevedibile». Anche quei suoi personaggi raccontati nei dettagli minimi del loro abbigliamento o nei loro gesti più elementari o nei gusti gastronomici non devono niente, spiega, a modelli della realtà. 
Ma la vita di Murakami è proprio ordinaria come lui sostiene? Per dieci anni, quasi fino ai trenta, gestore di un piccolo jazz bar alla periferia di Tokyo tra mille debiti da pagare per tirare avanti, poi, all’improvviso, una vera e propria chiamata alla letteratura, un cambio totale, un successo mondiale... «Sì, è vero, a un certo punto sono diventato uno scrittore e poi sono diventato famoso. Ma l’unico vero cambiamento è stata la scoperta che potevo scrivere le storie che immaginavo». Murakami insiste sul tema della vita ordinaria perché è un tema centrale per la sua narrativa: «Io parto da una vita normale, da un’ordinaria quotidianità: a un certo punto però i personaggi si trovano di fronte a esperienze o a circostanze inaspettate e inusuali. È qui, in questo gap, in questa contraddizione che nasce la fiction, è qui che nasce il dramma». Altrettanto importante è per lui affrontare la pagina con quella scrittura piana e priva di esibizioni stilistiche che, soprattutto ai suoi inizi, gli è stata rimproverata dai critici giapponesi. Nella lectio magistralis italiana, tenuta ad Alba, così come in molte dichiarazioni sulla sua narrativa ha sottolineato quanto il suo modo di scrivere sia debitore al jazz di alcune fondamentali caratteristiche: il ritmo, la melodia e la capacità di improvvisare. E soprattutto sia spontanea. Ma che cosa è la spontaneità in letteratura? 
«La spontaneità è la libertà di scendere nella profondità dell’anima e confrontarsi con tutti gli aspetti più intimi, segreti e misteriosi di un essere umano, con le forze incomprensibili alla coscienza che lo abitano». Qui c’è di nuovo un gap, o almeno un contrasto: come si passa dal mondo oscuro e spesso caotico della più profonda interiorità all’ordine della pagina scritta? Dalle violente esperienze che vivono i suoi personaggi in tenebrosi confini dell’anima alla semplicità del suo modo di raccontare? «Esiste quella che chiamiamo letteratura seria, che si occupa dei sentimenti e della condizione umana, e a lato esiste la letteratura di genere, il noir, il thriller, il fantasy eccetera, ognuno di questi generi con le sue tecniche narrative. Io voglio che le mie pagine siano leggibili, quindi per raccontare questa discesa complessa nelle profondità dell’anima mi servo delle tecniche della letteratura di genere». 
Un’altra caratteristica della sua opera è una sorta di intemporale attualità: l’epoca è presente nei luoghi, nelle canzoni, nei vestiti, nel cibo, ma non in precise indicazioni e connotazioni politiche o sociali. «Ci sono libri che trasmettono messaggi, idee forti: per me di forte, invece, c’è soprattutto la storia che voglio raccontare. Non mi piace mandare messaggi attraverso i romanzi che scrivo, oppure fare asserzioni e dichiarazioni di principio. Gli anni della mia giovinezza sono stati quelli delle lotte studentesche, dei dibattiti infuocati, delle opinioni irrevocabili. Poi da un momento all’altro tutto questo si è dissolto, non ne è restato più nulla. Per questo non credo nelle opinioni, ma nella forza delle storie. Tanto più che lavoro senza una trama prevista, senza sapere come andrà a finire. È la storia che mi guida. Scrivo e scrivo e scrivo, e il racconto va avanti». 
Non solo Murakami non ama i dibattiti politici, si dichiara altrettanto insofferente di quelli letterari. Se gli si chiede dove si è trovato meglio nei lunghi anni in cui ha viaggiato e ha vissuto fuori dal Giappone, risponde con grazia ironica che è stato bene ovunque, perché l’importante era essere lontano: non era amato dal mondo letterario giapponese e lui stesso non l’amava. Se ora è tornato a vivere a Tokyo, dice con quel disarmante understatement con cui ha affrontato la nostra conversazione, è perché gli anni passano, lui sente che sta invecchiando. Naturalmente ha un sentimento di vicinanza e solidarietà con il popolo giapponese, ma la sua vita continuerà a essere appartata. È la sua idea di libertà, centrata non sulla lotta politica, ma sull’individuo: «Sono molto individualista, ho pochi amici, non guardo la televisione, sono concentrato sul mio lavoro». Prima di salutarci gli dico che mi sembrano particolarmente affascinanti e potenti i suoi personaggi femminili, figure di donne o anche ragazzine, come quella di L’assassinio del commendatore, con una speciale intensità emotiva e spesso con qualche segreta sofferenza. «Le donne sono centrali nelle storie che scrivo. Anche se i personaggi maschili sono più numerosi o sono i protagonisti, in realtà sono quelli femminili a guidare la storia, a fare da medium tra l’uomo e le sue esperienze profonde. Le donne sono state e sono molto importanti per la mia fiction e per la mia vita».