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 2019  settembre 10 Martedì calendario

La svolta saudita sull’energia non piace agli Usa

Una rassicurazione sulla continuità delle politiche petrolifere saudite (almeno nel breve) e una sfida agli Stati Uniti sul nucleare, lo stesso terreno che fomenta le tensioni tra l’amministrazione Usa e l’Iran. Si è presentato così il principe Abdulaziz bin Salman al suo debutto nelle vesti di ministro dell’Energia dell’Arabia Saudita: una carica che non era mai stata ricoperta in precedenza da un membro della casa reale e di cui è stato insignito domenica, dopo il licenziamento in tronco del suo predecessore Khalid Al Falih. 
Con i modi garbati che sono la sua cifra distintiva, Abdulaziz ha subito aperto un possibile fronte di contenzioso con gli Usa, dichiarando che Riad punta a perseguire lo sviluppo del nucleare civile impegnandosi nell’«intero ciclo»: in pratica, occupandosi direttamente anche dell’arricchimento dell’uranio, un’attività che Washington guarda con sospetto per le sue potenziali applicazioni belliche. In fondo anche Teheran (contro cui Riad è schierata con gli Usa) non ha mai detto nulla di diverso. Dan Brouillette, vice segretario Usa all’Energia, ha drizzato le antenne: «Penso che sia un tema su cui dobbiamo lavorare con loro», ha detto a margine dello stesso convegno a cui partecipava Abdelaziz. Riad procede «in modo cauto, sperimentando con due reattori», ha precisato quest’ultimo, ma non è orientata a firmare il cosiddetto Accordo 123, in base al quale Washington offre tecnologia in cambio di un impegno a limitare le attività alla produzione di energia a usi civili. 
Quanto al petrolio, Abdulaziz per ora ha spazzato via le paure del mercato: le quotazioni del greggio hanno guadagnato circa il 3% e il Brent ha sfiorato 63 $/barile alle sue prime dichiarazioni da ministro, tese a rassicurare che non c’è «nessun cambio radicale» in vista. I tagli di produzione andranno avanti come previsto, almeno fino a marzo 2020. E resterà in piedi «nel lungo termine» anche l’Opec Plus, l’alleanza di ferro costruita con la Russia sotto la regia di Riad: una collaborazione che deve molto ai rapporti cordiali, ai confini dell’amicizia, che si erano instaurati tra Al Falih e l’omologo russo Alexander Novak. «La politica energetica saudita poggia su pochi pilastri e i pilastri non cambiano», giura Abdelaziz «Uno se ne va, l’altro viene ma tutti lavoriamo per il governo». 
Eppure le ultime vicende sollevano non poche incertezze sul futuro. Al Falih, nominato ministro nel 2016, in un momento difficile per i mercati petroliferi, non è riuscito a riportare il prezzo del barile al livello desiderato da Riad, che per il bilancio statale ha bisogno di 80-85 $. Valutazioni più alte delle attuali servirebbero anche per il successo della quotazione di Saudi Aramco, su cui peraltro si dice Al Falih stesse frenando. Nel giro di pochi giorni Al Falih si è visto dimezzare il portafoglio ministeriale, con lo scorporo di Industria e attività minerarie, e sfilare la presidenza della compagnia di Stato, ora affidata al governatore del fondo sovrano in vista di un’Ipo accelerata. Alla fine è arrivato il licenziamento, con la contestuale nomina di Abdulaziz bin Salman: esperto di petrolio e già vice ministro di Al Falih, ma anche figlio del sovrano Salman bin Abdulaziz Al Saud e fratellastro del potentissimo principe ereditario Mohammed bin Salman, emerso con forza come il regista delle strategie economiche.