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 2019  maggio 31 Venerdì calendario

Biografia di Orietta Berti

Orietta Berti (Orietta Galimberti), nata a Cavriago (Reggio Emilia) il 1° giugno 1943 (74 anni). Cantante. Circa 16 milioni di dischi venduti («Forse sarebbero di più ma non lo dico, sennò mi fanno pagare la percentuale pure su quelli»). «Mi sono adeguata ai tempi e mi diverto» • «Mia mamma si chiamava Vittoria Anna Vitali, ma la chiamavano tutti Olga. Non lo so perché… La mamma era di Traversetolo, un paesino non lontano da Cavriago, ma già in provincia di Parma. In un primo tempo doveva andare sposa a un medico, ma all’ultimo momento, quando lei aveva già pronto l’abito da sposa, lui ci ripensò e portò all’altare un’altra donna. Qualche anno dopo la mamma conobbe Mafaldo Galimberti, che faceva il commerciante di foraggi ma aveva la mania della musica lirica, e che poi diventò mio papà. Mia mamma era una ammiratrice di Liala, e quando era incinta di me stava leggendo un romanzo in cui la protagonista si chiamava Orietta. Così decise di darmi questo nome. […] I miei genitori non erano più molto giovani, e dopo di me non hanno avuto altri figli. Non erano molto ricchi, ma non avevano nemmeno grandi difficoltà economiche. La mamma lavorava, gestiva la pesa pubblica di Cavriago. […] Da piccola io ero un vero e proprio maschiaccio. La passione per le bambole mi è venuta da grande. A quei tempi, appena me le regalavano, le rompevo. Preferivo giocare con i servizi da tè della mamma, che facevano la stessa fine delle bambole. […] Devi sapere che Cavriago è chiamata “la piccola Russia”, tanto che in piazza c’è ancora un busto di Lenin in bronzo. Quando è morto Stalin, il paese intero si era messo a lutto, e tutti i cavriaghesi si erano riuniti nella piazza principale, dove su un enorme telone proiettavano un documentario sugli ultimi giorni di quell’uomo con i baffoni. Be’, io e la mia amica Sofia (avevamo 8 anni) non riuscivamo a piangere, anzi abbiamo cominciato a ridere, e non smettevamo più. Allora la mamma mi ha mollato un manrovescio che me lo ricordo ancora. La mamma era molto cattolica, ma allo stesso tempo era una comunista sfegatata. Aveva avuto un fratello partigiano. […] Dopo le scuole dell’obbligo, mia mamma avrebbe voluto che studiassi per diventare maestra, e anche a me non sarebbe dispiaciuto: diventare una maestra brava come lo era stata la mia, la signora Rosanna Cilloni. O anche una maestra d’asilo. […] Papà aveva […] una voce bellissima, da tenore. Da giovane aveva anche iniziato a studiare musica, ma poi è successo che suo padre (cioè mio nonno paterno) scappò in Francia con un’altra donna, lasciando la moglie con tre figli. Papà era il maggiore: dovette smettere di studiare musica e andare a lavorare, ma la passione gli era rimasta. Si ricordava le poche romanze che era riuscito a imparare a scuola, perché nei primi anni aveva fatto solo dei vocalizzi, e le cantava quando andava a fare le serenate. Quindi ha riversato tutta la sua passione su di me. Fin da piccola mi diceva che io dovevo cantare; non sapeva nemmeno se avevo una bella voce, ma lui aveva già deciso. […] La prima volta che mio papà mi portò da un maestro di canto lirico, quello disse: “È ancora giovane! Una donna deve venire quando è adulta, perché la voce poi cambia. Tra due o tre anni potrò lavorarci sopra, ma, se lavoro adesso sulla voce da bambina, la sforzo e la rovino. Non sappiamo se diventerà un soprano o un contralto”. Ma mio papà era impaziente, e allora iniziò a farmi cantare a casa. Mi comperava i dischi di Paul Anka, Diana, You are my destiny, e mi faceva cantare sempre quelle canzoni lì. Aveva poi degli amici che erano musicisti: uno, il Bertani, era stato anche nel complesso di Van Wood. […] Io avevo il registratore Gelosino, a bobine. Ce l’ho ancora. […] Me l’aveva comperato mio papà. Mi comperava tutto, purché io cantassi. Il Bertani mi passava bobine di musica sudamericana, che lui amava molto, e io da allora le ho imparate. […] Il fatto è che avevo paura del pubblico, ancora più fifa che dell’acqua! Però il giorno del mio debutto in pubblico si avvicinava. Devi sapere che a Cavriago non c’era un teatro, e a un certo punto i miei concittadini avevano deciso di costruirne uno. Tutti gli abitanti avevano offerto una piccola somma per la costruzione. […] Quando poi il teatro fu finito, tutti i giovani del paese lo hanno inaugurato con una specie di recital in cui prendevamo in giro gli abitanti più conosciuti di Cavriago. […] La sera dello spettacolo, io avevo un abitino bianco che mi aveva cucito mia zia. Ho ancora le foto… Una cosa un po’ da oratorio, ma quello è stato il mio vero debutto: dovevo ballare e poi cantare due canzoni allora in voga, Blue Canary e Il torrente, quest’ultima di Claudio Villa. […] Il torrente, l’aveva scelta papà Mafaldo. La sera mi accompagnava alle prove, che facevamo nel palazzo del Municipio, e quando mi vedeva sul palco impazziva. La mia esibizione fu comunque un vero successo. Dopo quella sera e quel piccolo trionfo, papà Mafaldo era completamente convinto che avrei dovuto cantare. E ormai ne ero convinta anch’io, perché cantare mi piaceva. Allora siamo andati prima dalla signora Carla Ragni e poi dal maestro Neri, che stava a Bologna. […] Con il maestro Neri studiavo canto e pianoforte. Perché, non lo sanno in molti, ma io so suonare il pianoforte. […] Restava però un fatto importante, e cioè che io continuavo ad avere paura del pubblico e dei musicisti che dovevano giudicarmi. Quando avevo cantato nella rivista a Cavriago, avevo meno paura, perché c’era tutto il mio paese, le mie amiche. La fifa mi veniva, per esempio, quando papà mi portava a fare dei provini. […] Ma era destino che dovessi cantare in pubblico, sai. Perché […] il maestro Speroncini venne a sapere che a Reggio Emilia, al Teatro Municipale, ci sarebbe stato un concorso Enal per voci nuove organizzato da un talent-scout noto di quel periodo, Giancarlo Conte. Avevo deciso di cantare Il cielo in una stanza, la canzone di Gino Paoli, che io amavo da impazzire nella interpretazione di Mina. Sin da allora io ero una appassionata di Mina, che forse è stata il mio unico punto di riferimento. […] La sera del concorso mi sentivo morire dalla paura, però ce la misi tutta e arrivai prima. Sai cosa ci hanno dato come premio? Un disco d’oro. Non vero, però, solo dipinto. Però è stato di buon augurio, visto che poi ne ho vinti davvero, di dischi d’oro! Non vinsi da sola al concorso: arrivai prima ex aequo con un’altra aspirante cantante della provincia di Reggio, la Iva Zanicchi. Dopo quella vittoria, la Iva e io facemmo anche delle serate insieme, e dividevamo a volte la stanza d’albergo. La Zanicchi poi andò alla Ri-Fi a fare un provino, ma anche io fui fortunata. Nella giuria del concorso di Reggio c’era il maestro Giorgio Calabrese, che è stato autore di moltissimi brani di musica leggera. Calabrese rimase colpito dalla mia voce, e mi propose subito di andare a Milano per sostenere dei provini presso una casa discografica. […] Ho preparato la mia borsa e mio papà mi ha accompagnata, in treno, perché non aveva la patente. […] Era il 1961. […] Arrivata a Milano, trovo Calabrese che mi porta negli studi di questa piccola casa discografica, la Karim. Era di proprietà di un ricco armatore genovese, che aveva cercato in quel modo di investire i suoi soldi. Il 18 febbraio registriamo quattro canzoni, che poi il 21 furono stampate su due 45 giri. Le canzoni del primo disco erano due motivi di stile sudamericano che io, grazie ai nastri che mi passava il Bertani, sapevo interpretare senza problemi. Erano Non ci sarò, che era stata scritta da Calabrese insieme al maestro Isola, e Franchezza, un pezzo brasiliano con il testo italiano di Calabrese. Il secondo disco comprendeva invece due canzoni francesi, mi sembra anche di Aznavour, Se non avessi più e Canzone di novembre. Non ero l’unica esordiente della Karim. Prima e dopo di me era stato il turno in studio di altri due giovani musicisti che dovevano incidere. Uno era Memo Remigi, che poi avrebbe scritto Io ti darò di più, e l’altro era Fabrizio De André. Ma guarda che non erano per niente noti, erano due esordienti come me. […] E come inizio devo dirti che non è andata molto bene, perché, proprio dopo aver stampato i miei due 45 giri, l’armatore proprietario della Karim decise che quello non era un mestiere per lui, che c’erano troppe spese (ma poteva accorgersene anche prima, vè!), chiuse l’etichetta e tornò a fare le navi. Quindi i miei primi due dischi in realtà non sono mai stati pubblicati. Io e qualche mio parente ne abbiamo delle copie, ma sono delle vere rarità! […] Ormai mi ero convinta di fare la cantante. Insomma, avevo visto i primi guadagni e avevo pensato che così potevo aiutare la mamma. E poi avevo meno paura di esibirmi in pubblico. C’era sempre papà che mi seguiva: lui era convinto più di me di quello che facevo. E appena possibile andavo ad ascoltare i cantanti che passavano dalle mie parti. Mi è tanto rimasto impresso il Gianni Morandi, che già allora andava per la maggiore. Ti confesso che già mi vedevo sul palco al suo posto. E oltre a papà Mafaldo c’era ancora Calabrese, che non mi aveva abbandonato. Anzi, mi aveva procurato un’audizione alla Polydor. Era una casa discografica molto importante che faceva capo alla Philips. […] Mi hanno presa. Eh, ma, se le cose andavano bene dal punto di vista della musica, andavano meno bene da quello privato. Nel 1963, quando sono arrivata alla Polydor, ho perso il mio zio Pietro, […] che io amavo tanto. E poi l’anno dopo […] è scomparso il papà, […] in un brutto incidente stradale. […] Senza nemmeno poter vedere un mio disco pubblicato. Forse è stato proprio per tener fede alla promessa fatta a papà che mi sono decisa a diventare una cantante professionista. I primi tempi alla Polydor mi fecero cantare canzoni di altri. Per esempio, mi fecero incidere la versione italiana di un successo della Brenda Lee, che si chiamava Losing You e che in italiano era Perdendoti. Con la Polydor feci tre o quattro 45 giri, ma il successo arrivò con le canzoni di Suor Sorriso. […] Nel frattempo, alla Phonogram [che aveva acquistato la Polydor – ndr] erano cambiati i produttori, […] erano […] arrivati i tedeschi. Questi si accorsero della mia voce e si resero conto che il repertorio finora affidatomi e fatto di pezzi stranieri non andava bene per le mie corde. Si accorsero, insomma, che avevo una voce italiana e che servivano canzoni classiche all’italiana. Nonostante ciò, gli stessi tedeschi pensarono che la voce adatta per eseguire le canzoni di Suor Sorriso con i testi in italiano scritti da Lucio Lami sarei potuta essere io. […] Non ero molto entusiasta di farlo. Perché pensavo che dopo mi avrebbero fatto fare sempre la suora e non avrei potuto cantare altro. Poi mi avevano anche fatto eseguire i pezzi di Suor Sorriso in falsetto, con la vocina, e non con tutta la mia estensione. Intanto mi avevano fatto incidere prima il 45 giri con Dominique e poi l’intero album. La vigilia di Pasqua del 1964 ho anche fatto la mia prima partecipazione televisiva. Non mi ricordo nemmeno che trasmissione fosse. Però mi ricordo che mi avevano fatto accoccolare su una sedia a dondolo, con la chitarra in mano, e mi aveva fatto cantare Dominique. […] La Phonogram aveva deciso di far partecipare un suo artista al Disco per l’estate. Il pezzo era già pronto, una canzone di Luciano Beretta e Alberto Anelli che, almeno all’inizio, si doveva chiamare Tu sei quella e doveva essere interpretata dallo stesso Anelli. Ma i tedeschi dissero “no”, che ci voleva la voce di una donna, e me la fecero incidere. Alla fine, la decisione, però, non la presero i discografici. Senti un po’ che storia: fecero ascoltare le due versioni a tutti quelli che capitavano, anche agli operai che stampavano i dischi, e proprio questi dissero che la mia interpretazione era più convincente. Così, preso ancora una volta il treno, partii per Saint Vincent senza troppe speranze, vè: ero una debuttante, anzi una quasi-debuttante come scrivevano i giornali, e alla manifestazione partecipavano nomi che magari oggi non ti dicono più niente, ma che allora erano famosi, da Peppino Gagliardi a Isabella Iannetti, da Bobby Solo a Luiselle, da Paola Bertoni a Franco Tozzi, il fratello di Umberto che pronunciava una lettera in modo strano, parlava un po’ come il Gatto Silvestro. Tra tutti loro vinsi io, perché avevo forse il pezzo più convincente, con una bella frase melodica all’italiana… […] Alla vigilia del concorso tutti dicevano che avrebbe vinto il Jimmy Fontana, e ormai ci credeva anche lui. Figurati come era rimasto quando una debuttante gli portò via il trofeo» (a Tommaso Labranca). «Precisamente il 18 giugno 1965, vinsi Un disco per l’estate con Tu sei quello. Considero questo l’inizio della mia carriera, perché fu l’hanno del primo grande successo» (ad Andrea Direnzo). L’anno successivo, la Berti partecipò al primo di undici Festival di Sanremo. «“Non volevo andare a Sanremo per forza. Il primo anno – era il 1966 – Gianni Ravera mi mise in coppia con Ornella Vanoni: cantavamo Io ti darò di più”. L’anno successivo, la tragedia di Tenco. Lei cantava Io, tu e le rose, che il cantautore cita nel suo biglietto d’addio: “Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro), ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io, tu e le rose in finale”. Sono passati 50 anni: quanto ci ha pensato? “Sempre. La vita rovinata l’ho avuta anch’io: sono sempre stata trattata come una ciabatta dalla stampa. Potevano dare una mano a questo ragazzo di talento, ma quando è stato il momento di ritirare fuori la canzone hanno ripescato La rivoluzione. Io che colpa ho? Tuttora non penso che abbia scritto lui il biglietto, ma una persona legata ai discografici”. Perché dice così? “Perché Tenco era troppo intelligente, sensibile. Sandro Ciotti me lo disse subito: ‘Orietta, non crederò mai che Tenco abbia scritto questa cosa’. E la stessa cosa me l’ha detta il fratello di Luigi. Nell’animo ero serena, ma un certo tipo di stampa aveva trovato il capro espiatorio”» (Silvia Fumarola). «Sanremo è sempre stato molto emozionante per tutti, anche se spesso non eravamo noi cantanti a volerci andare, ma erano le case discografiche che ci obbligavano, in quanto rappresentava una grande vetrina. […] Un errore durante la diretta o un’esibizione sotto tono sarebbe stata molto negativa, anche perché allora non erano tanti i contenitori televisivi dove promuovere il proprio lavoro. Ricordo Io ti darò di più nel 1966, Quando l’amore diventa poesia nel 1969, Occhi rossi nel 1974, Futuro nel 1986, tutte bellissime partecipazioni. Allo stesso modo, ricordo con tanto affetto l’accoppiata del 1992 con Giorgio Faletti in Rumba di tango: fu molto divertente». «L’ascesa dei cantautori penalizzò gli interpreti puri? “Tanto. Per questo iniziai ad autoprodurmi, scegliendo Umberto Balsamo come autore. […] Però negli anni Settanta, quando incisi tre album di canti operai e delle mondine e un lp sulle musiche degli zingari che mi diede un nomade di origini bulgare, ero l’unica a lavorare. Andavano di moda multisala che alternavano disc jockey, liscio e canzone: io grazie a quegli dischi divenni icona della musica italiana non cantautorale…”» (ad Andrea Pedrinelli). «Il suo più grande successo è la celeberrima e nazional popolare Fin che la barca va, del 1970. Nei primi anni ’70 ha ancora un discreto risultato con brani come Ah l’amore cos’è, In via dei ciclamini, Città verde e Stasera ti dico di no, cui segue una lenta ma inesorabile decadenza di consensi commerciali, compensata in termini di popolarità da un massiccia presenza televisiva» (Enrico Deregibus). «A un certo punto è stato come se la televisione si fosse ricordata di me o si fosse accorta della mia natura ironica. Ho iniziato con Acqua calda, nel 1992, la domenica pomeriggio su Rai Due. Voleva essere una specie di alternativa a Domenica in. Con me c’erano Nino Frassica e Giorgio Faletti. […] Poi sono passata alla Fininvest e ho fatto, sempre nel 1992, Rock & Roll, con Gianni Boncompagni. Era un programma in cui si esibivano dei bambini cantanti, e con me c’erano le ragazze di Non è la Rai, che però non erano ancora famose: Ambra Angiolini, Laura Freddi e Miriana Trevisan. […] Mi hanno subito chiamata a fare Domenica in con Mara Venier, Jimmy Fontana e Andrea Roncato. Poi per tutto il 1996 ho lavorato con Paolo Limiti su Rai Due a Ci vediamo in tv». «Ma il connubio con Fabio Fazio come è nato? “Ero negli studi Rai, dove lui stava facendo Quelli che… il calcio. Ci incontrammo nei corridoi, e mi chiese il perché non andassi ospite da lui. Gli risposi la verità, e cioè che non so nulla di calcio, e lui di ribattuta mi disse che ero quindi perfetta. Ho fatto 5 edizioni e sono andata in viaggio ovunque, in posti meravigliosi, per i collegamenti”» (Fabio Fiume). Iniziò così la sua nuova vita televisiva, che la vide in seguito partecipare a varie trasmissioni, principalmente sulla Rai (Ballando con le stelle, I raccomandati, Ti lascio una canzone, Ora o mai più), ma anche su Mediaset (Buona domenica) e, nel 2018, su Sky, a Celebrity Masterchef Italia, nelle inedite vesti di cuoca (giunta in finale, si attestò al secondo posto, dietro ad Anna Tatangelo). Il sodalizio più duraturo è però quello con Fazio, che, dopo averla voluta con sé prima a Quelli che… il calcio e poi ad Anima mia, dalla stagione 2016/2017 la ospita settimanalmente al «tavolo» di Che tempo che fa. Tuttora attiva anche sulla scena musicale, dopo aver festeggiato nel 2015 i cinquant’anni di carriera con la raccolta Dietro un grande amore – 50 anni di musica (quattro cd di grandi successi e uno di canzoni napoletane, per un totale di 109 brani) e con la relativa tournée, la Berti si sta già preparando al prossimo traguardo. «“Nel 2020 chiuderò il cofanetto per i miei 55 anni di carriera. Sto ascoltando parecchie canzoni nuove che m’inviano”. […] Lei da chi vorrebbe una canzone? “Mi piacerebbe Tiziano Ferro. La sua scrittura mi piace, è un buon autore. Della vecchia guardia, invece, vorrei risentire Umberto Balsamo. Non so se scriva ancora”» (Fiume) • Due gli storici soprannomi: «l’Usignolo di Cavriago» e «la Capinera dell’Emilia» • Due figli, Omar (1975) e Otis (1980), da Osvaldo Paterlini, suo marito dal 1967 nonché suo manager. «Lo incontrò alla fiera di San Simone. “Magro magro, con un trench alla Bogart, molto serio. Lo invitai a bere un caffè al cioccolato a casa mia, gli davo del lei. Portò in regalo un grosso pezzo di formaggio. Il nonno disse: bene, è generoso. La nonna invece era sospettosa: è troppo secco, non è sano, informati bene”. […] E il flirtino con Teo Teocoli? “Ma no, nessun flirt: eravamo quattro amici, io, lui, Ricky Gianco e Gian Pieretti, beh, lì in mezzo Teo era il più bello e mi faceva tanto ridere, niente più. E poi poco dopo ho conosciuto Osvaldo”» (Giovanna Cavalli). «Noi in famiglia abbiamo questa fissa per i nomi che cominciano con la “O”: Orietta, Osvaldo, Omar, Otis, mamma Olga, Odilla (mia suocera), Oreste (il nonno di Osvaldo). Persino il cane […] Oscar. Otis l’avevo sentito in America. Poi c’era Otis Redding, quel cantante di rhythm’n’blues che era morto in un disastro aereo con tutto il suo gruppo. Ma il nome l’ho scelto perché mi piaceva, era dolce. Omar, invece, era un omaggio a uno dei miei attori preferiti, Omar Sharif». La tradizione dell’iniziale vale anche per le nuove generazioni: nel marzo 2019, infatti, la Berti è diventata nonna di Olivia, figlia di Otis • «Sono un filino vanitosa, per niente permalosa e zero gelosa. Purtroppo, su quest’ultimo aspetto, Osvaldo è come me…». «Al primo posto viene la famiglia, poi viene il lavoro e tutto il resto» • «Ho sempre cucinato per mio marito Osvaldo e per i miei figli, ma non sono una vera cuoca emiliana, una “rezdora”, come si dice da queste parti, che sa fare tutto, dai ripieni agli arrosti. Io ho imparato un po’ da mia mamma e da mia suocera, ma sempre con il ruolo di aiutante. Sono una cuoca per esigenza, non per passione. Ho sempre cucinato in fretta: invece la cucina emiliana è molto elaborata, esige tempi lunghi» • Grandi e surreali polemiche, nel gennaio 2018, per alcune frasi dette dalla Berti nel corso di un’intervista radiofonica, in cui espresse l’intenzione di votare il Movimento 5 stelle in nome della sua antica amicizia con Beppe Grillo («Voglio dare il mio voto al mio amico Grillo. Gliel’ho promesso ma non l’ho mai votato perché ero sempre all’estero. Questa volta, il 4 marzo, lo voterò») e del suo apprezzamento eminentemente estetico per Luigi Di Maio («Se Luigi Di Maio ha un difetto, è quello di essere troppo bello. È abbronzato naturale, sembra un mulatto. Io l’ho visto di persona: ha dei bellissimi lineamenti e delle belle mani, e poi non è basso»). «Credo di essere la cantante che ha fatto più Festival dell’Unità di tutti e quella che ha lasciato più soldi, perché si chiedeva sempre di lasciare un contributo. Mi piaceva l’atmosfera che c’era. Ci andavo da bimba anche con mia mamma: per me era come la festa del paese. Il Pci era un partito che mi era molto simpatico, poi non mi ci sono più riconosciuta» (a Roberto Pavanello). «La politica le piace? “Macché. Anche se Osvaldo, mio marito, mi obbliga a vedere i talk show”. E lei si annoia. “Mi piacciono gli spettacoli musicali e le fiction”» (Antonello Caporale) • Numerose collezioni: dalle bambole alle scarpe, dai crocifissi alle camicie da notte, dalle acquasantiere alle parrucche. Grande passione anche per le guêpière: «Le ho sempre portate, sono comode: tengono dritta la schiena, fanno sparire i rotolini. Le compro ovunque» • «Diretta discendente di Nilla Pizzi sul piano stilistico. […] Dotata di una voce perfettamente intonata, si impone negli anni ’60 per il garbo delle sue interpretazioni, in un periodo in cui doveva fronteggiare talenti come Mina e Ornella Vanoni. Nonostante questo, è riuscita a conquistare un ampio consenso di pubblico, facendo leva su un repertorio popolare dalle poche pretese» (Deregibus). «È una delle più popolari interpreti femminili degli anni Sessanta, grazie alla perfetta intonazione e al garbo delle sue interpretazioni. Ugualmente lontana sia dall’esuberanza di Mina che dalla sensualità della Vanoni» (Augusto Pasquali). «Chi la ascoltasse senza pregiudizi, Orietta Berti, noterebbe una voce come poche: potente, nitidissima, con incredibile (e apparente) facilità di modulazione e tenuta, mai priva della grana forte dell’emozione e mai usata senza pensare alle parole» (Pedrinelli) • «Ho iniziato quando vendere trecentomila copie era un insuccesso: in piazza e in tv forse è logico, che vogliano ancora Fin che la barca va, che ne vendette tre milioni. Per promuovere canzoni diverse bisogna cantare le solite, ed è dura, senza appoggi e niente da dare in cambio, perché mi produco da me. Cosa che peraltro rifarei: dà libertà, permette di restare in possesso delle tue incisioni. All’estero, però, non temono le novità: puoi proporle». «Si vede dal vivo chi sa cantare: solo lì senti le stonature naturali. Tutti possono cantare bene, però serve studiare e saper scegliere i brani, senza mai abbassare tonalità, perché vanno fatti come sono stati scritti. Io studio due ore al giorno, voglio i fiati giusti, l’orecchio allenato, non fumo, parlo poco, faccio le prove al pomeriggio quando ho un concerto per sentire i musicisti e me stessa. E non sparo i “do” nelle prime canzoni: quante volte mi sento dire di essere stata preceduta in una piazza da un giovane che dopo tre brani non aveva più voce… Va usata con gentilezza: la gente capisce chi non ha impostazione». «Senza il talento non si dura cinquant’anni. Però mi definisco soprattutto tenace: vado sempre fino in fondo». «Tutto ciò che ho avuto nella mia carriera mi ha molto gratificata. Mi basterebbe rimanere in salute e continuare a cantare ancora per molti anni. Non c’è niente da fare: ogni sera, quando salgo su un palco e inizio a cantare, mi lascio ancora trasportare dalle emozioni».