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 2019  marzo 22 Venerdì calendario

Quelli che godono delle disgrazie altrui

Se credete che i social network abbiano scoperchiato il vaso dei peggiori istinti narcisisti e diabolici che se ne stanno sepolti nell’animo umano, è perché non conoscete i melanesiani, gli abitanti che vivono nell’atollo di Nissan (un ovale di terra di quindici chilometri per otto), in Papua Nuova Guinea. Gli indigeni, qui, hanno un termine che indica una specifica risata, quella davanti al dolore degli altri: banbanam. Ma non solo: il termine, nella sua accezione più negativa, significa “farsi beffe di un antagonista morto riesumando il suo cadavere e disperdendone i resti nel villaggio”. I melanesiani sono un filo scatenati, quanto a fare il peggio. Ma ringalluzzirsi nel vedere il dolore degli altri è un’emozione universale, equamente distribuita nel mondo ed espressa in tutte le lingue: i francesi parlano di joie maligne, piacere diabolico; i danesi dicono skadefryd e gli olandesi leedvermaa”; in ebraico godere delle catastrofi si dice simcha la-ed, in mandarino xing-zai-le-huo, in russo zloradstvo. Non che noi si sia migliori, anzi, quanto a efferatezze morali, i capostipiti ce li abbiamo in casa, sono i latini e prima di loro i greci: i primi parlano di malevolentia, malevolenza, i secondi di epichirekakia, epi, sopra, chairein, gioire, kakia, disgrazia. Infine, il tedesco, che del greco è parente: Schadenfreude, dove schaden è danno e freude piacere, quindi “il piacere del danno”, da cui il titolo dell’ultimo lavoro di Tiffany Watt Smith, storica culturale e professoressa alla Queen Mary University di Londra. strano godimentO Il volume, che tomografa questo specifico godimento perverso, è diviso in otto capitoli: “Disgrazie”, in cui si parla di «scivoloni, cacarella e altri disastri»; “Gloria”, dove l’autrice si occupa di «sangue, sport e trionfo», ovvero il ragazzino che vince tutte le competizioni sportive, poi «se la fa addosso e deve tornare a casa»; “Giustizia”, dal karma all’indignazione, dove si racconta del desiderio innato che proviamo, di punire gli altri: ciò che spinge il cameriere a sputare di nascosto nella zuppa del cliente scortese. Poi troviamo “Autocompiacimento”, ovvero «la superiorità, le pretese di grandezza e le vendette fantasiose»: «Quando le pareti di vetro del nuovo quartier generale della Apple sono talmente trasparenti che i lavoratori continuano a sbatterci contro», perché «da Icaro a Elon Musk, la hybris è il difetto che ci dà più soddisfazione, quando viene punito». Il quinto capitolo è “Amore”, ovvero «fratellanza, sesso e pettegolezzi», il sesto “Invidia”, quindi «amici, celebrità e mezze tacche», il settimo “Ammutinamento”, con «impiegati, capi e ribelli». Ultimo, “Potere”, che tratta di «politica, fazioni tribali, insulti». Nietzsche sosteneva che «veder soffrire fa bene», ma che «cagionare sofferenza è ancora meglio», una massima di educazione cinica: partendo da questa sentenza e attraversando esempi che vanno da Shakespeare ai Simpson, da Winnie The Pooh a Dostoevskij fino a Kim Kardashian, la studiosa cerca di capire come funziona questo sentimento tanto comune, a che cosa serve e se dobbiamo vergognarcene o meno. E perché l’essere compiaciuti «spettatori della sofferenza» sia una finestra da cui intravedere parti nascoste della nostra psiche.

GIOIA IPOCRITA
Così, inanellando tanti aneddoti di stronzaggine da riempirci un guardaroba o una wunderkammer di perfidia, dobbiamo ammettere, purtroppo, che ci ritroviamo in tutti, perché ne siamo stati oggetto o soggetto protagonista. «Poche cose ci fanno fare comunella e sguazzare in una gioia ipocrita», scrive Watt Smith, «più di un parlamentare che viene beccato a taroccare i conti». Insomma a voler male siamo banali, e anzi, siamo fotocopiatrici della banalità: scriveva George Orwell, «i miei connazionali hanno una capacità unica di celebrare non tanto i trionfi militari quanto i disastri». Nell’esergo del libro San Tommaso d’Aquino, che ne ha avute per tutti: «Perché quindi la beatitudine dei santi venga da essi più apprezzata, e maggiormente essi ne rendano grazie a Dio, viene loro concesso di vedere perfettamente la pena di reprobi». Un altro salto indietro e troviamo il poeta Lucrezio, che nel De rerum natura descrive il piacere di osservare dalla riva una nave in tempesta: non perché ci dia appagamento vedere qualcun altro soffrire, scrive l’epicureo, ma perché assaporiamo l’esperienza di sapere da quale sofferenza siamo stati risparmiati. Dall’uomo d’affari che pesta una cacca di cane e devasta la scarpa di vernice, all’amica bellissima che viene mollata dal fidanzato. Non è solo un guardare gli altri, meglio se ricchi, belli, con un buon lavoro e la decapottabile luccicante, arrancare nelle sabbie mobili, ma è proprio un compiacimento estatico: un calore che irrora tutto il corpo, parte dalle dita dei piedi e sale su fino a disegnarci in faccia un sorriso. Il nostro piacere consiste nel vedere qualcuno perdere, si chiede l’autrice, e di conseguenza nel sentirci come se fossimo noi a vincere? La Schadenfreude è una reazione normalissima nei confronti di chi ci fa sentire in qualche modo inferiori, spiega l’autrice, e ci ricorda che non siamo i soli a sbagliare. Nonostante gli innumerevoli esponenti illustri e gli ancor più numerosi anonimi che abbiamo intorno, avverte la Watt Smith, la Schadenfreude rimane un difetto: al mal comune è meglio metterci una pezza.