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 2019  marzo 22 Venerdì calendario

Intervista a Giuseppe Lavazza

Ogni anno serve 30 miliardi di tazzine di caffè ai clienti di tutto il mondo. Ogni giorno, per milioni di volte, vende l’Italia all’estero. Giuseppe Lavazza, 53 anni, discende da Luigi, un droghiere che alla fine dell’Ottocento aveva messo su bottega nel centro di Torino e, come un antico alchimista, si era inventato la «miscela». Fino ad allora nessuno mischiava i caffè.

Dalle navi di Genova arrivavano i sacchi di arabica? Si tostavano quelli. Il mese successivo arrivava la robusta? Finiva nella tazzina senza problemi. La «miscela» è nata per poter vendere a tutti lo stesso tipo di caffè dodici mesi all’anno. E ha avuto un successo incredibile.
Signor Lavazza, che cosa vuol dire oggi vendere l’Italia all’estero? Che cosa piace di noi agli altri?
«Mi verrebbe da rispondere che dell’Italia piace la miscela. Il made in Italy è molto di più di una denominazione d’origine. Fuori dai confini è considerato uno stile, una cultura. Questo apprezzano di noi».
Che cosa c’è nel made in Italy?
«Innanzitutto c’è l’originalità, la creatività. Il fatto di saper trovare soluzioni impreviste ai problemi. Ma soprattutto piace dell’Italia lo stile di vita. È il nostro modo di condurre la giornata che riesce a parlare un linguaggio universale, che arriva a tutto il mondo. A differenza di quanto accade ad altri, il made in Italy non è solo manifattura. È arte, scienza, letteratura. E’ eccellenza che nasce nel piccolo e che riesce a diventare riferimento mondiale».
Eccellenza, creatività, stile di vita. Ogni Paese ha il suo. Perché noi siamo diversi?
«Perché li abbiamo tutti. Il made in Italy, in fondo, è uno degli elementi unificanti nella cultura della Penisola».
Come la nazionale di calcio e, fino a poco tempo fa, la televisione?
«Più o meno. Quando parlavo di miscela intendevo proprio questo. Siamo un Paese che ha molte diversità al suo interno e sappiamo quanto questo possa aver creato dei problemi. Ma quelle differenze sono anche la nostra straordinaria ricchezza. Perché la diversità ci impone di trovare sintesi tra mondi molto lontani, ci costringe a creare uno stile che per questo diventa unico e viene apprezzato nel mondo».
Chi la fa quella sintesi?
«Tutti contribuiscono in modo importante, ovviamente. Ma quel che chiamerei il nocciolo duro è rappresentato dagli artigiani e dai piccoli borghi, dalle centinaia di migliaia di laboratori che creano eccellenza nella Penisola».
Ci risiamo con piccolo è bello?
«Piccolo è spesso creativo, è la dimensione in cui noi riusciamo meglio a far nascere l’eccellenza. Poi non è vero che piccolo è sempre bello. Una volta che la pianta è germogliata bisogna essere in grado di farla crescere. Per uscire dalla metafora, bisogna darsi una dimensione grande, internazionale. Insomma uscire dalla bottega e sfidare il mondo».
Artigiani e piccole città. Perché?
«Perché sono la dimensione della nostra storia secolare. Abbiamo ereditato quella e quella storia abbiamo raccontato al mondo. L’Italia, anche prima di essere uno Stato unitario, è sempre stata una Penisola fatta di città. Ciascuna con una cultura propria e in parte diversa da quella della città vicina. E quella dei nostri mille borghi è stata la storia di migliaia contaminazioni, di saperi radicati in un territorio specifico. Che poi, me lo lasci dire, è soprattutto una storia di famiglie. Senza la famiglia non c’è bottega e, soprattutto, non c’è trasmissione del sapere da una generazione all’altra».
Esportiamo un modello familiare?
«In molti sensi. Intanto perché diverse aziende del made in Italy sono ancora legate alle famiglie che le hanno fondate nel secolo scorso. E poi perché la familiarità, intesa come dimensione intima, naturale, il contrario della massificazione, è una delle caratteristiche della storia dei nostri prodotti di eccellenza».
Che cosa non funziona invece? Quali ostacoli incontra un imprenditore come lei a portare l’Italia nel mondo?
«Le dirò. Gli ostacoli principali ce li creiamo noi. Nel mondo connesso di oggi, tutti possono vedere tutto in tempo reale. E se io maltratto le città, lascio i quartieri abbandonati, consento che prevalga la corruzione, faccio molto male al made in Italy».
Sono immagini che hanno effetto anche sulle vendite di un imprenditore?
«A lungo andare sì. Per due ragioni. La prima è che gli investitori si fidano di meno. La seconda è che il nostro è un Paese molto invidiato nel resto del mondo. E ci sono persone che non vedono l’ora di coglierci in fallo. Veniamo dipinti come il paradiso in Terra e non pare vero di raccontare i nostri difetti».
Come possiamo evitare questi difetti?
«Dipende, naturalmente, da ciascuno di noi. Ma dipende soprattutto dalle scelte della politica. Alla quale spetta la promozione del made in Italy, il sostegno alle botteghe e agli artigiani di qualità. La competizione è molto forte, ci sono sistemi-Paese che si muovono, non possiamo lasciare che gli italiani si trovino da soli nella competizione. E poi è necessario che le istituzioni lavorino per offrire un’immagine positiva del nostro Paese. Perché questo, mi creda, aiuta. Ecco, vorrei un’Italia che riesce a fare uno sforzo per valorizzarsi meglio. Come imprenditore ho apprezzato che il presidente Mattarella si stia muovendo in questa direzione. Per superare il nostro difetto principale: facciamo ottimi prodotti ma, talvolta, li gestiamo con un pessimo marketing».