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 2019  marzo 20 Mercoledì calendario

Intervista a Vincenzo Nibali

Vincenzo Nibali, ciclista, è nato a Messina.

Se la condizione esistenziale di un corridore è nel verbo “faticare”, Vincenzo Nibali ha rispettato alla lettera la consegna alla Tirreno-Adriatico, chiusa ieri al 15° posto, a 4’34” da Roglic, con un paio di interessanti accelerazioni nelle due tappe dei muri. Una corsa, la Tirreno, che il siciliano pure vinse due volte ma che da qualche anno è diventata per lui una palestra in cui, come si dice, durare fatica. Nella sua stagione numero 15 da pro, a 34 anni, Nibali è il faro del movimento italiano e, con il contratto in scadenza con la Bahrain-Merida, anche un uomo mercato: è forte su di lui il pressing della Trek-Segafredo, che gli ha offerto un biennale. Sabato prossimo, intanto, al fine orecchio di Nibali si comporrà una litania meravigliosa: Turchino, Capo Mele, Capo Cervo, Capo Berta, Cipressa, Poggio, via Roma. Oltre la fontana con le lettere sgranate che insieme compongono il nome “Sanremo”, un pezzetto della sua leggenda si è scritto, 368 giorni fa. Milano-Sanremo e lei, Nibali, che parte col numero 1 del campione in carica. «Bello, per il modo in cui sono arrivati quella vittoria di un anno fa e questo numero, che ti dà sempre forza ma anche responsabilità». Torniamo sul Poggio, al 2018. «Mi parte un corridore davanti, della Israel Academy, bravo». Neilands. «Era pianificato che mi muovessi, ma per fare da stopper e favorire la volata di Colbrelli. Quando mi sono accorto che in fondo non avrei arrecato danno alla squadra proseguendo l’azione, ho tirato dritto, a tentare non si sbaglia mai. Ho scollinato da solo». Aveva dei riferimenti? Molti corridori parlano della famosa cabina telefonica, in cima. «Non l’ho vista… Sapevo di dover dare tutto fino al tratto in cui spiana, e poi inizia la discesa». La discesa fa paura, vista in tv. «È tosta, ma lì ho pensato più che altro a stare concentrato e a non rischiare più del necessario, a non forzare troppo, in fondo vincere la Sanremo non dipendeva da quanto avrei guadagnato in discesa, ma dagli ultimi 3 km. Ci vogliono delle gambe incredibili per resistere al gruppo, anche se poi poche squadre erano organizzate e ognuno correva per sé. Ma non mi sono mai girato, se non agli ultimi duecento metri». È, dicono, tutta lì la differenza tra un campione e un buon corridore. E ha un sorriso incredibile sulla foto dell’arrivo. «Non me l’aspettavo, non lo credevo possibile. Altre volte avevo provato, ma avevo raccolto piazzamenti. Per vincere dovevo arrivare da solo, ma quanti ci sono riusciti, soprattutto negli ultimi anni?». La telefonata di Merckx, dopo l’arrivo. «Bella, ma mi hanno chiamato in tanti, da Gimondi a Bettini. Uno dei momenti più belli della mia vita. Ho sentito la solennità del momento. Non so se sia la mia vittoria più bella, questo lo dirò a fine carriera». Anche allora aveva fatto tantissima fatica alla Tirreno. «Quest’anno la condizione è indietro, ho iniziato tardi, io preferirei correre di più, ma con la squadra siamo andati in altura tutto febbraio. Io non l’avrei fatto, ma sono stato costretto a cambiare programma in corso d’opera. Anche il Tour dopo il Giro l’ha voluto la squadra, io non ho mai amato fare le due corse insieme». Non buoni segnali in ottica del rinnovo del contratto con la Bahrain. Tracci un identikit di una squadra “ideale” per lei. «È essenziale per me trovare un ambiente familiare intorno». Otto giorni di gara, più la Tirreno: bastano per provare a rivincere la Sanremo? «Non è semplice, un anno fa tornando a casa dalla Tirreno ho sentito delle ottime gambe. Ora ci sono molti velocisti che vanno forte e da anni non c’è volata classica. Possiamo dire mille cose, ma poi arrivano Cipressa e Poggio e tutto si chiarisce o tutto si imbroglia». Cosa crede abbia tolto la caduta sull’Alpe d’Huez durante il Tour 2018, quando il manubrio della sua bici venne agganciato dalla cinghia della macchina fotografica di un tifoso, alla sua carriera? «Anche questo potremo dirlo alla fine. Per ora, certamente un buon piazzamento al Tour e metà stagione passata, con un Mondiale molto vicino alle mie possibilità». Avrà una rabbia supplementare in questa annata, incentrata sull’assalto al 3° Giro d’Italia? «Sicuramente c’è rabbia per quel che è successo e quel che per fortuna e per poco non è successo. Pochi millimetri e ora staremmo parlando di cose più gravi». Ha mai pensato per un attimo che quelle sarebbero potute essere le sue ultime pedalate? «Non ho mai pensato questo, né di mollare. Ho lavorato duramente per rimettermi in sella, era importante farlo subito e non perdere tempo». Si riuscirà mai a riportare la civiltà sulle grandi salite? «Ci sono persone che vivono l’evento da tifosi e persone che sono lì per fare tutt’altro. L’imbuto che si crea fa paura. Serve più polizia, transennare prima dell’ultimo km, contingentare gli ingressi. Noi vogliamo stare sereni, mentre facciamo una fatica bestiale». Le forze di polizia stanno lavorando tra Austria e Germania intanto su questa nuova bomba-doping, l’Operation Aderlass: due ciclisti, Preidler e Denifl, hanno ammesso. Che aria si respira in gruppo? «Abbiamo sentito e ne parliamo, certo è molto grave, è una notizia che ci ha scossi. Per fortuna le forze di polizia stanno lavorando bene e devono continuare a farlo. È una questione di giustizia, ma anche di salvaguardia della salute di ragazzi che dopandosi rischiano la pelle». Si è dimostrata però la fallibilità del passaporto biologico: nessuno dei due aveva avuto sbalzi significativi dei propri parametri. «Abbiamo fiducia nel passaporto e ci sottoponiamo a molti controlli anche fuori competizione, rinunciando alla nostra privacy. Credo che sia un sistema da proteggere, su cui la Wada deve sicuramente lavorare ancora. Ma è al momento lo strumento più efficace che abbiamo contro i bari».