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 2019  marzo 18 Lunedì calendario

I negozi cinesi cambiano pelle

In principio furono l’involtino primavera e il cacciavite: è così che abbiamo incontrato la Cina sotto casa. Se i ristoranti con le insegne del dragone ci hanno avvicinato alla cucina orientale, i bazar che popolano le nostre città, grazie ai costi bassi e all’assortimento omnibus, hanno spianato la strada all’invasione dei prodotti cinesi. Ma in pochi anni l’imprenditoria cinese ha cambiato pelle, trasformando quella che credevamo una «colonizzazione» in una risorsa per la nostra economia. Oggi una percentuale importante degli articoli esposti sugli scaffali dei negozi cinesi (circa il 40-50%) è «Made in Italy» o è distribuita da società italiane di import-export, in molti casi anche per rispondere ai requisiti di sicurezza Ue. 


La distribuzione è cambiata
Spiega Francesco Wu, ingegnere prestato alla ristorazione, presidente onorario di Uniic-Unione Imprenditori Italia Cina - e referente della Confcommercio di Milano per l’imprenditoria straniera: «Con lo sviluppo, il costo del lavoro in Cina è cresciuto fino a triplicarsi mentre il cambio euro-yuan ha perso il 20-30%, assottigliando sempre di più il margine del grossista. Allo stesso tempo la qualità dei prodotti è aumentata e di conseguenza anche il loro prezzo, quindi per alcune categorie, come bigiotteria, giocattoli e abbigliamento, è diventato meno vantaggioso importare ai ritmi dei primi anni 2000. Tante catene di grandi negozi oggi hanno un assortimento misto cinese-italiano, ma anche di provenienza europea». Un caso interessante, dice, «è quello di Aumai, catena di mercatoni diffusa soprattutto nel Nord Italia: qui si possono comprare prodotti italiani, come scarpe e abbigliamento, di qualità e a prezzi concorrenziali, anche se magari non sono l’ultimo modello, perché acquistati in grandi stock». A Roma i cambiamenti sono visibili nella storica Chinatown di via dell’Omo, una zona affollata di capannoni industriali e grossisti, in gran parte cinesi, che corre su un fianco di via Prenestina a pochi passi dal grande raccordo anulare, dove, incastonato tra le insegne in due lingue, sorge il più grande tempio buddista d’Europa. Uno dopo l’altro si susseguono magazzini di casalinghi e di abbigliamento, di scarpe e di scaffalature per negozi. «Oggi in questa zona ci sono circa 80 ingrossi, ma un tempo erano di più. La distribuzione è cambiata, moltissimi commercianti non vengono più qui ad approvvigionarsi e si rivolgono direttamente ai rappresentanti, molti dei quali sono agenti di ditte italiane» spiega Marco Wong, esponente di Associna, ingegnere elettronico che, dopo un percorso nelle telecomunicazioni e la start-up italiana di Huawei, ha scelto l’imprenditoria e oggi si occupa di import di alimentari etnici.
Le attività riconvertite
E’ mattina, i clienti scarseggiano. A causa del costo degli affitti, i grossisti con necessità di enormi superfici si sono spostati fuori Roma, raccontano gli operatori, e quindi la zona si sta lentamente spopolando, esattamente come sta succedendo nella centralissima piazza Vittorio, o a Milano in via Paolo Sarpi, dove gli showroom che avevano cambiato l’identità dei quartieri stanno via via chiudendo o vengono riconvertite a nuove attività. Da Padova e Monza fino a Napoli e Catania, spiega Wong, «è in corso una evoluzione in un mondo che ai meno attenti può sembrare un ecosistema sempre uguale a se stesso». Uno dei sensori del cambiamento è proprio la contaminazione delle merci italiane o distribuite da aziende italiane benché spesso made in China: «I prodotti di Natale sono commercializzati principalmente da due aziende italiane, una di Nola, in provincia di Napoli, l’altra pugliese - spiega un commerciante - ed è pugliese di Martina Franca uno dei principali distributori di giocattoli e casalinghi. Spesso sono italiani i cosmetici venduti nei bazar cinesi. Una piccola azienda del centro Italia è cresciuta principalmente attraverso il canale dei negozi cinesi che oggi ha un fatturato milionario». 
La rotazione della clientela
Vengono distribuiti da aziende italiane, per esempio, pentole, detersivi, saponi, carta. Dalla Cina arrivano ancora in via diretta soprattutto il materiale da ferramenta, oggettistica, accessori per auto e per l’elettronica e i cellulari. «Quello che consente ai commercianti cinesi di offrire ancora prezzi competitivi è una mentalità di gestione che punta alla rotazione: ovvero assicurarsi che la gente torni mantenendo i prezzi bassi» continua Wong. Bing Lin, 50 anni, è in Italia ormai da 23 anni. 


E’ il gestore di un’attività di import-export: sui 4 mila metri quadrati del suo capannone sono esposti migliaia di articoli, dai giocattoli alle grucce «Rispetto a 10 anni fa il vantaggio di importare prodotti dalla Cina è diminuito perché sono aumentati manodopera e materiali - conferma - Oggi il costo di un container, solo per il trasporto, oscilla tra i 1200 e il 1900 dollari, mentre lo sdoganamento dipende dal valore della merce. Quindi deve esserci una convenienza. Io importo prevalentemente ferramenta, plastica e fiori finti. I fornitori italiani hanno più esperienza del mercato italiano e la qualità è maggiore». «Il modello del bazar ha raggiunto il livello di saturazione ed è in difficoltà, anche perché la crisi economica ha assottigliato la capacità di spesa della classe medio-bassa, che consumava quei prodotti» spiega Francesco Wu. C’è chi ha chiuso, chi è tornato in patria. Grazie allo sviluppo tumultuoso della Cina, l’immigrazione ha rallentato anche se gli imprenditori cinesi sono i più rappresentati nel nostro Paese: oltre 80mila. A Roma molti cambiano settore, passando alla gestione di bar e tabaccherie. 
Nuovi modelli di business
A Milano i cinesi di seconda generazione hanno diversificato e sono presenti nei settori più disparati e c’è chi cerca di imporre nuovi modelli di business dalla Cina importando per esempio cucine regionali, o chi già ha trovato la sua gallina dalle uova d’oro puntando sul sushi: «Oggi nel Milanese ci sono circa 500 ristoranti di sushi, e la maggior parte sono gestiti da cinesi - conclude Wu -. Il primo ristorante giapponese che ha conquistato la stella Michelin, Iyo, è gestito da cinesi. Noi siamo commercianti, andiamo dove c’è l’affare».