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 2019  marzo 07 Giovedì calendario

Intervista a Keith Richards

Ha settantacinque anni, è diventato nonno già cinque volte, è amico di Mick Jagger da quando erano bambini e suonano nella stessa band, i Rolling Stones, da cinquantasette anni. Non fa più uso di droghe da molti anni, ha smesso anche di bere e, addirittura, sta cercando di smettere di fumare: «Ma è decisamente più difficile che smettere con l’eroina, lo diceva Lou Reed ed è vero». Keith Richards è una leggenda, difficile definirlo in un altro modo, una delle icone del secolo scorso e, a dire il vero, anche di questo. Musicista sopraffino, Richards è andato in pensione come campione mondiale di eccessi («Nella mia vita non ho lasciato nulla d’intentato, ma l’esperimento è finito»), ma è ancora la rockstar per eccellenza. Ci parla dalla sua casa nel Connecticut, in occasione della ristampa il 29 marzo — con un lussuoso cofanetto con inediti, gadget, un libro fotografico e altro ancora — del suo primo album da solista, Talk is cheap,uscito nel 1988, il suo primo disco senza i Rolling Stones e con un’altra band, gli X-Pensive Winos.
Com’era nato il progetto?
«Io e Steve Jordan avevamo iniziato a lavorare insieme alla colonna sonora di Jumpin’ Jack Flash con Aretha Franklin e subito dopo ci fu il film Hail! Hail! Rock’n’Roll di Taylor Hackford con Chuck Berry. Quando il lavoro per il cinema finì pensammo che avremmo potuto buttare giù qualcosa insieme e in mezz’ora trovammo gli X-Pensive Winos. La band c’era, il problema era cosa fare. Ma bastò metterci insieme in studio per capire che avevamo qualcosa di molto buono. Per me era entusiasmante, era come dare vita agli Stones un’altra volta».
Perché all’epoca gli Stones erano in crisi? Colpa della voglia di Jagger di dedicarsi alla carriera solista? Temeva che gli Stones potessero sciogliersi?
«No, era una serie di fattori insieme. Soprattutto c’era stata anche la morte di Ian Stewart, una delle colonne della storia degli Stones e un collante fondamentale tra noi (co-fondatore della band, dopo l’allontanamento dal gruppo rimase come manager per i tour, ndr). Era un momento complicato, eravamo stati i Rolling Stones per ventiquattro anni, era naturale che ognuno di noi volesse aprire le ali e provare a volare, era naturale che lo facesse Mick. La spinta a farlo anche io me la diede Charlie Watts, mi disse “se fai qualcosa da solo falla con Steve Jordan”. E aveva ragione. Charlie è un batterista fantastico, il mio perfetto compagno di giochi, quando dice qualcosa è spesso saggia e stare con lui è la mia chiave di volta per suonare meglio. Steve Jordan era lì, e Charlie aveva visto che era la persona giusta per me, i batteristi sono come una società segreta, hanno i loro strani legami».
Lei non voleva che gli Stones si fermassero…
«Certamente no, anzi, alcune delle canzoni dell’album, come Take it so hard, le avevo già scritte molto prima di avere l’idea di fare un disco da solo, l’avevo scritta per gli Stones.
Ma quando ho pensato di registrarle mi sono girato e dietro di me gli Stones non c’erano più. Ero contento e amareggiato: contento perché ero estremamente soddisfatto del risultato, amareggiato perché non avevo nessuna intenzione di fare un disco solista, era il segno di un fallimento, del fatto di non riuscire in quel momento a tenere i Rolling Stones insieme».
Era diverso scrivere senza la band?
«La verità è che le canzoni non decido di scriverle, mi arrivano e basta. A me accade così, mi siedo al piano, inizio a strimpellare un rhythm’n’blues e aspetto, pian piano sento la differenza, le mie mani iniziano a muoversi in direzioni misteriose e sento una voce nella mia testa, qualcosa che mi muove e mi colpisce e mi porta verso determinate note, non ho mai saputo esattamente cosa fosse. Il mio mestiere è sempre stato quello di scrivere canzoni che Mick Jagger possa cantare e quindi so muovermi all’interno di quei parametri. Scrivere con Steve Jordan era diverso, ma il feeling che avevamo era fenomenale, ci capivamo al volo. Ed è ancora così, è ancora uno dei miei migliori amici».
Quindi lavorare senza Jagger era meglio o peggio?
«Era completamente diverso e completamente nuovo, non lo avevo mai fatto prima.
Ma era anche incredibilmente divertente. E ho anche imparato qualcosa, soprattutto sul lavoro che fa Mick come frontman. Io negli Stones sto sempre dietro a farmi gli affari miei con Charlie o Ronnie…».
Immaginava che “Talk is cheap” avrebbe avuto una celebrazione come questa?
«Si, quando l’ho pubblicato pensavo che sarebbe durato nel tempo, nessuno nella casa discografica ci credeva, io invece sì. Sapevo che eravamo un bellissimo mucchio di ragazzi, lo penso ancora, Steve Jordan, Ivan Neville, Waddy Wachtel, un dream team che non avrebbe potuto far altro che meraviglie. Ma non ho mai pensato che i Winos potessero essere una cosa duratura, era un esperimento, abbiamo fatto due album molto belli, il secondo è Main offender. Era sicuramente un modo per mostrare che c’era un’altra parte di me, un modo di riempire il tempo mentre la band era ferma, ma sapevo che gli Stones prima o poi sarebbero tornati, non possiamo farne a meno».
Allora, cosa ha in serbo il futuro di Keith Richards?
«È una domanda alla quale è difficile rispondere. Di certo ho ricevuto una telefonata molto importante e non le dirò chi mi ha chiamato, ma qualcosa di bello potrebbe succedere. Certamente per adesso c’è in ballo un nuovo disco dei Rolling Stones, siamo già al lavoro, lo saremo fino alla fine di luglio. Con Mick e i ragazzi stiamo registrando molte cose, molto blues, e siamo soddisfatti di come sta andando il lavoro. Poi ci sarà un nuovo tour e quindi non ci possono essere altri impegni. Poi molto dipende anche da come andrà questa riedizione di Talk is cheap, dalla risposta della gente. Certo è già incredibile l’interesse che ha scatenato prima di essere pubblicato, quindi chissà…».
Non ha intenzione di appendere la chitarra al chiodo?
«No, la musica resta la cosa più importante, è un motivo costante di gioia, è quello che aggiusta tutto. Non va bene nulla? Suoni e tutto si aggiusta. Sei arrabbiato? Sei annoiato? Suoni e le cose cambiano verso. Per me è esattamente come respirare, non ne posso fare a meno. E l’età non è certo un problema, ho anche imparato a essere nonno».