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 2019  febbraio 10 Domenica calendario

Intervista a Fausta Garavini

Prima ancora di imbattermi nei suoi romanzi di impianto storico avevo camminato su quel sentiero di fiori e di cactus che sono i Saggi di Michel de Montaigne, un distillato di lingua dolce e pungente tradotto in maniera magistrale da Fausta Garavini. Una donna che sembra sempre essere lì ad assaporare le cose ultime e che ti guarda con la rassegnata dedizione di una vita spesa per la ricerca, eleggendo il Cinque e il Seicento a secoli mirabili e per certi tratti così simili al nostro. Mi aveva colpito quel suo libro intitolato La casa dei giochi, carico di erudizione mai noiosa e con un prologo che mi dava da pensare: “Parigi 1623”. Cos’era accaduto quell’anno? Una città in subbuglio, in preda all’allucinazione spirituale, attraversata da un manipolo invisibile di Rosacroce. Si disse che erano venuti dalla Germania diffondendosi per l’Europa ad annunciare la Riforma del mondo. Padre Mersenne, amico di Descartes, prendeva molto sul serio gli “invisibili” ritenendoli spiriti maligni. Le cose non stavano esattamente così. Ma un certo contagio spirituale si era diffuso fino al punto da coinvolgere ampie fette della popolazione. Certo quel 1623 non somiglia in nulla al 2019 salvo in un punto: allora come oggi ci si affidò al miracolo, come unico strumento con cui la volontà popolare avrebbe legittimato la propria autorità. Se volete chiamarlo populismo accomodatevi. Ma indiscutibilmente in due punti remoti della storia l’utopia aveva risvegliato i suoi deliri onirici: «C’è sempre nelle fasi di crisi o di rottura un momento in cui tutto il non detto, di una società nel caos, affiora in superficie e ogni cosa si mescola e si contagia, risuonando di echi sinistri. Questa è anche l’ora in cui i ciarlatani ambiscono a conquistare il potere. Ieri come oggi. La musica non è mai cambiata. Certo, anche i Rosacroce erano dei ciarlatani, con le loro mirabolanti promesse abbindolavano il popolo. Tuttavia la loro magia aveva un’aura misteriosa, affascinante e niente affatto volgare. Ma lei mi sta portando su un terreno per me ormai remoto. Chiusi con la saggistica pura nel 1990 quando pubblicai Mostri e chimere».

Era un libro dedicato a Montaigne.
«Prendeva spunto dal capitolo sull’ozio, quando Montaigne dice di essersi ritirato dalla scena pubblica per trascorrere in pace ciò che gli resta da vivere. Ma poi si accorge di sentirsi come un cavallo imbizzarrito che genera chimere e mostri fantastici, senza ordine e senza motivo».
Quasi un’autoanalisi.
«La critica ha sempre inteso quei mostri come fantasie o divagazioni. In realtà, Montaigne avverte il presagio di forze misteriose che possono impadronirsi del pensiero cosciente e razionale. In quel libro cercai di far vedere come i mostri sfuggano all’autocontrollo di Montaigne e, nonostante i suoi sforzi, affiorino dalle sconnessure della sua pagina».
Sotto quale forma?
«Ossessione del cadavere, incubo dell’afasia, ansia di dominio, ribrezzo dei contatti umani, perfino la tentazione del suicidio si insinua nel catalogo delle sue nevrosi».
E poi c’è la complicata presenza del padre.
«Un rancore inconfessato che traspare sotto il suo elogio del “buon padre che Dio mi dette”. Rancore dovuto a delusioni e attriti, conseguenze negative della pedagogia sperimentata dal padre su Michel e che di fatto ritarda il suo ingresso nella vita attiva. Infine sussistono pesanti questioni patrimoniali in famiglia. E allora tenere a bada i mostri sarà il lavoro di una vita. Qualcosa che Montaigne cercherà di conquistare a colpi di penna».
Da come parla di "Mostri e chimere" sembra un libro che le somiglia.
«Fu il risultato di un lavoro in profondità sugli Essais, per il quale devo molto a mio marito, acutissimo specialista del testo. Non è un caso che il libro chiuse la mia stagione saggistica e cominciai a scavare in me stessa. Ogni scrittura che pretenda autenticità è sempre una lotta contro i mostri».
I suoi quando si sono affacciati?
«Credo fin dall’infanzia che non è stata bella. Genitori civili ma privi di una vera intesa. Mancava quel calore che forse auspicavo. Mio padre era un tecnico grafico, dirigeva un’importante tipografia. Da Bologna, per lavoro, ci trasferimmo a Firenze. Quando poteva mi portava a visitare gli Uffizi. Da qui la mia passione per l’arte».
Con chi si laurea?
«A Firenze, alla facoltà di lettere, avevo un’ampia scelta: Eugenio Garin per la filosofia, Delio Cantimori per la storia, Roberto Longhi per l’arte, Gianfranco Contini per la filologia romanza. Per la tesi scelsi Contini anche perché Longhi era all’ultimo anno di insegnamento. Contini mi consigliò di occuparmi di letteratura occitanica moderna».
In pratica la letteratura provenzale.
«È la lingua d’oc del sud della Francia che ha dato vita alla poesia provenzale e dei trovatori. Ma il mio interesse si rivolse ai poeti e scrittori contemporanei. E tra questi ebbi la fortuna di conoscere Robert Lafont, l’uomo che sarebbe diventato il compagno della mia vita. Andai a intervistarlo per la mia tesi. Fu emozionante il nostro incontro. Robert era uno dei massimi esperti di letteratura occitanica. Ma anche l’ideologo del movimento occitano. Per me fu soprattutto un uomo semplice e generoso».
Comunque sia fu una tesi insolita per una ragazza di neanche vent’anni.
«Tanto insolita che Daniele Ponchiroli voleva che la pubblicassi per Einaudi. Ma poi passò troppo tempo e Contini decise che sarebbe uscita per Ricciardi con il titolo L’Empèri dòu Soulèu, era il 1967. Fu grazie a quella pubblicazione che Raffaele Mattioli volle conoscermi. Mi ricevette nel suo studio. Lui affabile, io timida e impressionata. Mi disse testualmente: " Lei deve promettermi che tutto quello che scriverà da ora in poi lo pubblicherà con la Ricciardi". Non realizzai mai più nulla per la Ricciardi. Però quell’incontro con Mattioli fu fondamentale per darmi fiducia».
Su cosa lavorò in seguito?
«Giovanni Macchia mi chiese di scrivere una storia della letteratura occitana moderna che uscì per Sansoni nel 1970. Cominciò allora la mia carriera accademica. Il mio primo incarico fu a Salerno. C’erano Sanguineti, De Felice, Menna. Un ambiente molto stimolante. Poi vinsi il concorso da ordinario e andai a Bologna per tre anni. Infine approdai definitivamente a Firenze».
Si è spesso rimproverato a Firenze un certo clima di chiusura culturale.
«Potrei rispondere che ogni chiusura è una forma di protezione. Però Firenze ha avuto personaggi a volte difficili e a volte straordinari».
Con chi si è sentita più a suo agio?
«Sicuramente con Luigi Baldacci. Lo conobbi fin dall’università, lui assistente io studentessa. Poi diventammo amici».
Fu un critico letterario particolare che non riuscì a sconfinare oltre Firenze.
«So che aveva una straordinaria conoscenza della letteratura, dell’arte, della musica, del cinema. Spesso condensava il suo sapere in qualche frase definitiva. Era un burbero benefico, più pessimista di me».
Mi raccontarono della sua casa piuttosto bizzarra.
«Proveniva da una famiglia di antiquari e l’abitazione sembrava una Wunderkammer cinquecentesca. Proiettava la sua contemplazione della morte sulle pareti di casa. Ricordo a capo del letto un dipinto che raffigurava sant’Agata con i seni sul piatto; nella stanza da pranzo san Pietro che si strappa le viscere e perfino, parcheggiato sotto una consolle, un tristissimo coccodrillo impagliato. L’unica cosa viva di quella casa erano i gatti che spadroneggiavano impunemente».
Longhi lo ha conosciuto?
«A parte l’anno universitario, lo vidi nell’ultimo periodo della sua vita. Contini mi mandò da Anna Banti per pubblicare un capitolo della mia tesi sulla rivista Paragone. Longhi lo vidi poco. Morì nel 1970. Della Banti divenni amica. Mi piaceva la qualità della sua prosa ed è forse la cosa che le ha nuociuto di più. Passava per una scrittrice difficile».
Fu una coppia rappresentativa di un’epoca. Ma chi era il perno tra i due?
«Emilio Cecchi disse che il cervello della Banti era molto più potente di quello di Longhi. E una volta sembra che Berenson rivolgendosi a Longhi disse: come si sta a vivere con un genio?».
Anche Longhi non scherzava quanto a genialità.
«Longhi possedeva un’intelligenza dissipativa. Come la sua inclinazione al gioco d’azzardo. La Banti era timida al limite della scontrosità. Longhi era dotato di una capacità mimetica straordinaria. Qualità che si scorgeva non solo nel modo in cui la prosa aderiva al soggetto, fosse un quadro o un artista non importa, ma anche nel talento di imitare i personaggi televisivi. Devo dire che aveva una personalità opposta a quella di Contini».
In comune ebbero l’amore per una lingua preziosa.
«In apparenza è così. In realtà la lingua di Longhi era molto più ariosa. Mentre quella di Contini risultava più criptica. Una volta mi confessò che era tutto un fraintendimento il fatto che la sua lingua fosse ritenuta così eccezionale. La verità, aggiunse, è che non so scrivere».
È d’accordo?
«Penso che Contini si nascondesse dietro la sua scrittura».
Lei invece ha cercato di rivelarsi soprattutto attraverso i romanzi. Alcuni dei quali molto apprezzati. È stato un modo per sconfiggere mostri e traumi?
«La forma del romanzo offre maggiore libertà. Ma scrivere, in qualunque modo, è comunque una terapia contro il male di vivere».
Lei ha tradotto Montaigne, in che misura quella lingua le è rimasta dentro?
«Se convivi con qualcuno è fatale assimilarne certi caratteri. La mia avventura con Montaigne ebbe inizio quando ancora non ero laureata. All’università accanto a Cantimori c’era Mazzino Montinari. Fu lui, quando seppe della mia tesi, a chiedermi di raggiungere Giorgio Colli a casa, perché intendevano farmi una proposta. Abitava in collina, a San Domenico di Fiesole, mi rivedo mentre cammino lungo la strada. Mi batteva il cuore. Oltre a Colli e Montinari c’era Luciano Foà. Mi comunicarono che avevano lasciato la Boringhieri e da qualche tempo iniziato il lavoro editoriale per Adelphi».
Gli "Essais" uscirono per Adelphi?
«Nel 1966 e fu un lavoro in cui dovetti misurarmi con una lingua marezzata di guasconismi. Il guascone fa parte dell’area occitanica, è la lingua della corte di Navarra che in quel momento conosceva una smagliante fioritura. Montaigne ne rivendica esplicitamente l’uso, dichiarando che vuole rappresentarsi al naturale, dunque scrivere come parla. Del resto, nei contatti quotidiani con servitori e contadini, che non sapevano il francese, doveva usare una lingua ibrida».
Una lingua fortemente realista.
«Una lingua molto particolare che viene prima dell’istituzione in Francia dell’Accademia che la purifica e impoverisce».
La Francia non scriverà come Montaigne preferendogli Descartes.
«È il passaggio a una nuova epoca e a una diversa concezione della modernità».
Che cosa le ha insegnato Montaigne?
«Quando lo tradussi ero molto giovane, ebbi la consapevolezza che si possa scrivere davvero in maniera libera».
Cosa vuol dire?
«La capacità di mettersi sempre in questione perché ciò che è stato vero ieri può non essere più tale oggi o domani. Ho imparato dalle sue incertezze e dai suoi dubbi. Quando dice che il suo intelletto non va sempre dritto, ma anche indietro, intende che non è neppure sicuro di ciò che sta scrivendo. La sua prosa e i suoi pensieri si muovono sulla sabbia incerta della vita».
E questo oggi ce lo rende più vicino o più pericoloso?
«Forse entrambe le cose. Anche se oggi si fa un uso dissennato della parola cambiamento».
Perché?
«Ah questo non lo so, bisognerebbe chiederlo a coloro che se ne riempiono la bocca. Un’epoca non è mai tutta bianca o nera. Quando parlavamo di quella data fatidica, il 1623, beh occorre vedervi i residui medievali, le tracce di un passato che travasa in quel presente. In una stessa persona possono convivere pulsioni opposte. Galilei faceva gli oroscopi e al tempo stesso accoglieva la teoria di Copernico».
Si sente più condizionata dal passato o dal presente?
«Mi sento un dinosauro felice di esserlo. Sono più attaccata ai residui del passato che alle promesse del cambiamento. Non mi adatto e non ho voglia di farlo. Forse conta anche che Robert non c’è più. Un vuoto che non riesco a colmare. Faccio quello che posso per tenermi in piedi. Leggo, penso, a volte scrivo. In questa solitudine raccolta. Avrei una terribile voglia di credere. Ma non ci riesco. Forse la mia sola religione è quella dello sconforto e del conflitto interiore».