Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  dicembre 24 Lunedì calendario

Troppe chiese. Meglio venderle?

La messa è finita da un pezzo, ben prima che Nanni Moretti ne facesse un film nel 1985 o che il fotografo Andrea Di Martino battezzasse così la sua mostra fotografica sulle chiese dismesse. Gli italiani si dicono ancora cattolici, se non altro perché la concorrenza delle altre religioni non è ancora così agguerrita, ma i praticanti sono sempre meno: 1 su 4, dice Eurispes, e in continuo calo. Il vuoto. La domenica il numero delle messe si dirada ovunque, con i parroci che concordano gli orari per non contendersi i pochi fedeli rimasti, e durante la settimana le chiese vengono tenute aperte soltanto in orario d’ufficio quando un’anima pia si presta per un po’ di sorveglianza o per le pulizie. Qualche prete che se lo può permettere ingaggia vigilantes per garantire un minimo di sicurezza; altri, in comunità particolarmente fervorose, ricorrono all’adorazione perpetua. Gruppi di volontari, come i Templari cattolici d’Italia del magister Mauro Giorgio Ferretti con i loro bianchi mantelli crociati di rosso, si offrono come custodi per alcune basiliche.
Ma per molti edifici sacri il destino è segnato: chiudere, presto o tardi. Non è soltanto colpa dell’allontanamento progressivo dalla fede. Molte chiese sono rovinate dal tempo, dall’incuria o dai terremoti e mancano i soldi per rimetterle in sesto. Altre sono legate ad abbazie e monasteri di ordini religiosi che non hanno più vocazioni, oppure appartengono a privati. Lo svuotamento è legato anche a fenomeni sociali che non sono frutto di una resa religiosa: campagne e montagne si spopolano, scompare non la fede ma il lavoro, e la gente è costretta a trasferirsi in città. Il fenomeno colpisce soprattutto l’Europa centrale e settentrionale: Francia, Belgio, Olanda, Svizzera, oltre che Stati Uniti e Canada, ma l’Italia non è risparmiata.
PATRIMONIO DI TUTTI
Una chiesa è un tempio, un edificio sacro, la «casa di Dio» come insegnavano le maestre di catechismo. Molto spesso è anche uno scrigno di arte, un monumento di storia, la testimonianza di un fervore religioso e di una passione civile che non sono soltanto patrimonio del passato. Se una chiesa chiude, la colpa pesa anche su quanti praticanti o no – si disinteressano di una civiltà che è stata la spina dorsale dell’Occidente. Il Vaticano si è posto il problema con un convegno all’Università Gregoriana a fine novembre, al quale papa Francesco ha inviato un messaggio che a molti è suonato enigmatico. Scrive il pontefice che «i beni culturali sono finalizzati alle attività caritative svolte dalla comunità ecclesiale». Per spiegarsi bene, Bergoglio cita il martirio di San Lorenzo il quale, quando ebbe l’ordine di consegnare i tesori della Chiesa, mostrò «i poveri che aveva nutrito e vestito con i beni dati in elemosina».
Le chiese chiuse vanno dunque vendute per costruire centri di accoglienza e mense per i bisognosi? «Detta così è una semplificazione eccessiva», risponde don Valerio Pennasso, direttore dell’Ufficio nazionale della Cei per i beni culturali ecclesiastici. «Nemmeno il Vaticano lo fa. Poniamo che si metta in vendita la Pietà di Michelangelo: è un vantaggio per i poveri o no? Quanti ne beneficerebbero? E se la Pietà venisse poi esposta a pagamento? Il Papa dice che il patrimonio della Chiesa deve servire tre missioni: il culto, l’evangelizzazione, la carità. Vanno considerate tutte assieme. E dice anche che la dismissione non deve essere la prima e unica soluzione a cui pensare, e che l’eventuale vendita non dev’essere fatta con scandalo dei fedeli». I quali effettivamente s’innervosiscono parecchio quando vedono basiliche antiche diventare teatri, birrerie, campi da tennis al coperto, discoteche, palestre, set fotografici, centri estetici, ristoranti o anche solo mense. Vendere. Sembra una ricetta facile, ma non lo è. L’acquirente compra un pezzo di storia, un simbolo di una comunità, uno stabile sul quale non avrà mano libera perché coperto da vincoli architettonici e urbanistici, magari bisognoso di restauri urgenti. Una volta sistemato l’immobile, non sarà facile cambiarne la destinazione d’uso perché è necessario il consenso del vescovo. E poi chi la compra? Un privato? Per farsene che? O un albergatore per fornire il pacchetto completo «cerimonia più ricevimento» per i matrimoni? E chi è in grado di valutare il prezzo giusto di una chiesa? Alle diocesi non piace vendere: non avrebbe più alcun controllo sull’utilizzo. Non è un dettaglio da poco, come dimostra il fatto che lo stesso papa Francesco si sia raccomandato di evitare che i fedeli si scandalizzino. E in ogni caso, gli enti pubblici avrebbero un diritto di prelazione nell’acquisto.
IL REBUS DEI NUMERI
Cedere le chiese delle zone spopolate e impiegare il ricavato per costruire altrove? Anche in questo caso don Pennasso storce il naso: «Questi edifici di culto spesso rappresentano l’ultimo simbolo di paesi e borgate e i pochi residenti rimasti mai se ne priverebbero. È una questione identitaria, pensiamo a che cosa è successo dopo il terremoto del Centro Italia. Ci sono stati casi in cui i soldi per restaurare le pievi sono arrivati da privati, tanto esse sono considerate luoghi della memoria e dell’identità». Perfino un uso per cerimonie private avrebbe le sue controindicazioni: «In primo luogo spiega don Pennasso ci vuole sempre il benestare del vescovo. E poi si rischia confusione. Un matrimonio cattolico si potrebbe anche celebrare, uno civile no». Sempre per lo stesso principio, cioè evitare disorientamento, «una chiesa non dovrebbe mai essere trasformata in una moschea». 
Il Vaticano rovescia la prospettiva: non dovrebbe essere la Chiesa come istituzione a farsi carico delle basiliche abbandonate, ma la comunità. «Vendere è come dire che a quella certa comunità, soprattutto quella cristiana ma anche civile, non interessa più la sua storia e il suo patrimonio osserva don Pennasso -. In zone ricche di beni ambientali, paesaggistici ed enogastronomici, cioè praticamente in tutta Italia, chi fa promozione turistica dovrebbe includere anche un sito culturale e artistico come una chiesa dove non si celebra più. È un patrimonio della comunità che richiede attenzione e tutela da parte di tutti».
Un censimento delle chiese dismesse in Italia non esiste. L’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto della Cei ha avviato anni fa una rilevazione del patrimonio ecclesiastico arrivando a inventariare 65.260 edifici sacri di proprietà della Chiesa. Si stima che esistano altri 30mila tra chiese, cappelle e santuari di diversa proprietà: Stato, Comuni, confraternite, istituti religiosi, fabbricerie (cioè le associazioni di origine medievale che amministrano edifici di culto a spese proprie) e privati. Ma nessuno, né vescovi né altri, si azzarda a catalogare le chiese da chiudere e tantomeno a individuare piani di dismissione. Troppo impopolare, sarebbe il sigillo su una sconfitta. Pare comunque che in Italia siano almeno 600, parecchie delle quali ridotte a un rudere. Considerate le 226 tra diocesi e circoscrizioni ecclesiastiche, si può ipotizzare che ognuna ne abbia almeno 3.
NO ALL’ISLAM
Pochi giorni fa il Pontificio consiglio della cultura presieduto dal cardinale Gianfranco Ravasi ha pubblicato un documento con le linee guida per utilizzare le chiese dismesse. Il Vaticano raccomanda di preservare gli edifici sacri da «usi impropri» e prevenire situazioni che possano offendere il sentimento religioso della comunità cristiana. Preti e vescovi sono invitati a catalogare il patrimonio e a seguire corsi di formazione sui beni culturali. Negli atti di vendita (non auspicati) dovrebbero essere sempre inserite clausole a tutela degli edifici. La destinazione dovrebbe essere compatibile con l’intenzione originaria della costruzione: sì dunque a musei, aule per conferenze, librerie, biblioteche, archivi, laboratori artistici, finalità caritative; semaforo rosso invece per riutilizzi commerciali. Arredi, immagini, paramenti sacri dovrebbero essere sottratti alla cessione e donati alle chiese vicine, o a quelle lontane ma povere. Togliere anche manufatti, altari, organi, pulpiti e immagini sacre, a meno che la chiesa non diventi un museo. Sottinteso, ma non troppo: mai vendere a musulmani.