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 2018  novembre 15 Giovedì calendario

Biografia di Dacia Maraini

Dacia Maraini, nata a Fiesole il 13 novembre 1936 (82 anni). Scrittrice. Poetessa. Saggista. Drammaturga. Tra i numerosi riconoscimenti, un premio Campiello per il romanzo La lunga vita di Marianna Ucrìa (1990), un premio Strega per la raccolta di racconti Buio (1999) e un premio Campiello alla carriera (2012). «Ho cominciato a scrivere perché nella mia famiglia tutti leggevano e scrivevano. Dopo il primo patrimonio librario fatto dai “padri”, però, mi sono cercata quello delle “madri”: Duras, Dickinson, Sylvia Plath, Yourcenar, Grazia Deledda. Ho fatto politica attraverso il teatro di strada, e grazie al femminismo ho riletto la storia con occhi che non lasciano da parte le donne» • Prima delle tre figlie dell’etnologo e orientalista Fosco Maraini (1912-2004) e della pittrice Topazia Alliata (1913-2015), di famiglia aristocratica. Pur essendo un principe, «il nonno materno, Enrico Alliata, come il Tolstoj degli anni della Confessione, diventò vegetariano, vestì i panni dei contadini, prese a vivere con loro e come loro. “Nonno Enrico andava in campagna, si occupava personalmente delle vigne e del vino: era anche enologo. Era un uomo buono e generoso. Mia nonna Sonia invece era figlia di diplomatici cileni, era ignorante perché non aveva studiato, come succedeva alle ragazze di allora, ma era una cantante di grande talento. Ricordo la sua voce bellissima, potente: era un soprano, aveva studiato alla Scala di Milano e con Caruso. Allora le donne di buona famiglia non potevano salire sul palcoscenico perché era considerato sconveniente. E quindi cantava alle serate di beneficenza, ma è stata frustrata tutta la vita perché lei avrebbe voluto fare la cantante lirica”. Dall’altra parte della storia c’è il nonno Maraini, di origine ticinese, uno scultore che si era stabilito a Firenze: il papà di Fosco. “Era stato conquistato dal primo fascismo e dalle avanguardie del primo Novecento. Mio padre invece era ferocemente contrario, si opponeva a qualunque tipo di discriminazione razziale: si sono litigati sempre su questo. Invece mia nonna paterna era una scrittrice, Yoï Pawlowska. Era per metà inglese e per metà polacca. Scriveva romanzi di viaggio, si metteva lo zaino sulle spalle e andava a piedi: attraversò la Persia così”» (Silvia Truzzi). «Un giorno mio nonno portò a mio padre una tessera del fascio, spiegandogli “Senza questa non puoi lavorare” e posandogliela in mano come fosse una necessità a cui adeguarsi senza tante storie. Mio padre, che aveva un carattere… diciamo “deciso”, strappò la tessera in mille pezzi e glieli buttò in faccia. Fu una rottura terribile: per trent’anni non si sono più parlati. E, per di più, in seguito a questo litigio mio padre se n’è andato di casa, nonostante fosse un ventenne che non guadagnava niente: per qualche tempo fu costretto a vivere di patate perché non poteva permettersi altro. Poi qualche anno dopo ha avuto la fortuna di vincere una borsa di studio internazionale per studiare da vicino una popolazione del nord del Giappone che si chiamava Ainu, un popolo di cacciatori di orsi, e allora con molto coraggio […] ha preso la giovanissima moglie e la figlia appena nata (che ero io) ed è partito per il Giappone. Là abbiamo vissuto a Hokkaido, tra la neve, ma molto integrati nella società locale: vestivamo alla giapponese, mangiavamo alla giapponese, io da piccolina parlavo perfettamente il dialetto di Kyoto. Nel 1943 purtroppo è cambiato tutto, perché l’impero nipponico ha firmato un patto di alleanza con Hitler e Mussolini e quindi è stato chiesto a tutti gli italiani che vivevano in Giappone di firmare un’adesione formale alla Repubblica di Salò. Mio padre e mia madre hanno deciso di non aderire. […] Ci hanno presi, caricati su un camion e portati in un campo di concentramento non lontano da Hiroshima. Siamo rimasti là due anni: non c’era lo sterminio come nei lager nazisti, ma la vita era molto molto dura per la fame, il freddo e i parassiti» (a David Frati). «Con mio padre i momenti di maggiore intimità li abbiamo avuti in campo di concentramento, in Giappone. Essendo antropologo, il mio dolcissimo padre era sempre in viaggio e non è che lo vedessi molto. Lì non poteva uscire, quindi stavamo sempre insieme. Anche se soffrendo la fame, sotto le bombe, nella paura del domani, siamo stati vicini, e, poiché io non potevo andare a scuola, lui si metteva lì paziente a insegnarmi la geografia, la matematica, la filosofia. Ci riparavamo spesso sotto un ciliegio – le cui foglie, essiccate, servivano a lui e agli altri prigionieri per arrotolarsi delle primitive e puzzolenti sigarette – e mi parlava di Platone e di Galileo. Mia madre invece mi raccontava le storie buffe di Giufà, mi raccontava di Pinocchio, il primo grande e amatissimo personaggio della mia vita. […] Ogni sera mi stupivo di essere ancora viva. Fra le bombe, la fame, i parassiti, le minacce di morte dei guardiani, mi aspettavo sempre di morire» (a Titti Giuliani Foti). «Allora mio padre, scavando nelle sue conoscenze antropologiche, ha tentato una mossa disperata: sapeva che esisteva una tradizione samurai definita “yubikiri” per cui se un uomo si taglia un dito e lo tira addosso al nemico gli crea un’obbligazione e gli impedisce di considerarlo un vile. Coraggiosamente mio padre Fosco ha preso un’accetta, si è tagliato un dito e lo ha gettato addosso alla guardia che ci sorvegliava. Lì per lì ha ottenuto solo calci, pugni, urla, però poi incredibilmente – l’antropologia qualche volta serve, dunque! – i giapponesi hanno smesso di darci dei vigliacchi e insultarci e ci hanno regalato una piccola capra che faceva del latte: e quel latte ci ha salvato la vita». Liberati alla fine della guerra, «restiamo altri nove mesi in Giappone, aspettando una nave. Non avevamo più niente, solo il vestito che ci avevano dato gli alleati. Mia madre lavorava per loro, mio padre traduceva dal giapponese. In qualche modo ce la siamo cavata. Poi siamo andati a vivere in Sicilia, in una villa molto bella che apparteneva a dei parenti della mamma. Ma noi stavamo nell’ex pollaio, da cui era stato ricavato un appartamentino. La Sicilia, l’Italia tutta, era poverissima nel dopoguerra. E noi non avevamo davvero niente. La Sicilia era dura per una ragazzina: c’era un controllo sociale continuo. Non potevo andare in giro da sola per la strada, la mentalità era molto arcaica». «“In casa mia non c’era niente: i libri erano l’unica ricchezza. E poi era una famiglia di scrittori. Leggevo tantissimo, era la cosa che preferivo. Al liceo ho scoperto i classici, i greci, i latini, la grande letteratura dell’Ottocento. […] Ho cominciato prestissimo a scrivere, sul giornale della scuola, a Palermo”. Cosa? “Poesie e racconti. Poi ho fondato una rivista, a 17 anni. Si chiamava ‘Tempo di letteratura’. Eravamo tutti aspiranti scrittori: ci incontravamo, discutevamo, scrivevamo i nostri racconti, poi traducevamo”» (Truzzi). «La fame e la povertà continuavano a perseguitarci. Papà fece perfino il fotografo per poter campare. La famiglia di mia madre, un tempo ricca, […] rovinò economicamente. […] I miei si separarono. Fosco tornò a Roma ai suoi studi di orientalistica. Restai con mia madre. Otto anni a Palermo. Alla fine decisi di raggiungere mio padre a Roma, dove viveva in un miserabile appartamento di piazza Bologna. […] Faceva ricerca, scriveva. Ma la cattedra l’avrebbe avuta solo anni dopo, a Firenze. Insomma, non ce la passammo bene. I primi soldi cominciai a guadagnarli come segretaria. Poi divenni hostess della Pan Am. Stava cambiando il vento. Il boom economico allontanò definitivamente lo spettro della povertà. Mi sposai con un pittore, Lucio Pozzi. Un matrimonio durato quattro anni. Ero incinta quando Lucio decise di andarsene. E io persi il figlio. Al settimo mese. Crollò il mondo. […] Fu dura rimettermi. Cominciai a vivere da sola e a scrivere. Scrissi il mio romanzo di esordio e lo portai all’editore Lerici. Mi disse: bimba mia, se vuoi che te lo pubblichi devi procurarti la prefazione di un grande scrittore» (ad Antonio Gnoli). «“Io sapevo che da Rosati, in piazza del Popolo, si vedevano sempre gli scrittori e i pittori, così sono andata lì e con l’aiuto di Giuseppe Tucci, che era amico di mio padre, ho avvicinato il primo dei grandi scrittori che ho trovato, che era Alberto Moravia. Gli ho consegnato il mio romanzo con molta trepidazione e ho aspettato che mi dicesse se avrebbe scritto una prefazione. Dopo alcuni giorni ho ricevuto una telefonata, […] Moravia mi ha detto per telefono che il romanzo gli era piaciuto e che avrebbe scritto la prefazione. Naturalmente sono saltata dalla gioia e ho avvertito subito l’editore, che mi ha promesso di fare uscire il libro appena avesse ricevuto la prefazione. Dopo qualche settimana ho avuto la prefazione e il libro è uscito ed è andato bene. Da quel momento non ho più avuto bisogno di prefazioni”. […] “Questo personaggio di adolescente è la cosa migliore del romanzo, la tua più felice e più complessa invenzione. Essa parla in prima persona e tuttavia non conosciamo i suoi pensieri perché, probabilmente, non li conosce lei stessa, cioè non li pensa”. È così che Alberto Moravia introduce Anna, l’adolescente protagonista di La vacanza, romanzo d’esordio di Dacia Maraini. Siamo nel 1962, la scrittrice non ha ancora compiuto 26 anni e ha alle spalle alcuni racconti pubblicati su Nuovi Argomenti. […] Lo chiamò La vacanza, “ma non nel senso di uno svago o di un viaggio festoso, bensì di un vuoto; un vuoto che le faceva torcere il collo in un gesto dolente di ricerca”» (Gabriele Sabatini). «Un’opera prima aspra, asciutta, stranamente matura. Senza alcuna concessione al sentimentalismo o ai toni gridati. Una storia di iniziazioni sessuali vissute da una ragazzina undicenne e dal fratello minore in un luogo di villeggiatura della costa laziale, nell’anno di guerra 1943, sullo sfondo di una società borghese piccola piccola, incapace di ideali o passioni. Un’atmosfera tanto più torbida quanto più la violenza dell’eros è sempre sottaciuta o solo allusa, non rappresentata in dettagli e descrizioni. […] Ma la giovane Dacia […] ebbe […] critici indifferenti o stroncature al limite del dileggio in cui sembra prevalere un risentimento scandalizzato. Parlano infatti (a sproposito) di “perversione sessuale”, “turpiloquio” e “pornografia”; nonché di “deformazione, distruzione ed esecuzione capitale del romanzo realista”» (Marisa Rusconi). «C’è un continuo ritornello, praticamente in tutti gli articoli dedicati ai libri d’esordio di Dacia Maraini, dove si mette in evidenza come ella fosse una ragazza “assai graziosa”, con un certo compiacimento nell’utilizzare il giudizio estetico a mo’ di arma per squalificarla come scrittrice» (Sabatini). Nel frattempo, con Moravia (1907-1990) era iniziata una «lunga storia di tenerezza e amore. […] Quando ci mettemmo insieme era già separato da Elsa Morante, che in quel momento viveva una passione travolgente per Luchino Visconti. Era attratta dall’ambiguità sessuale. Nonostante ciò, non volle mai divorziare da Moravia». «Nel ’63, con l’assegnazione del prestigioso Premio Formentor a L’età del malessere, la polemica infuria sui giornali e Dacia Maraini viene pubblicamente accusata di essere una protetta di Moravia. […] Negli anni ’70, facendosi incalzante l’impegno femminista, è cofondatrice del teatro gestito da sole donne La Maddalena (1973). […] La notorietà internazionale arriva con Maria Stuarda (1980), dramma tradotto e messo in scena in 22 Paesi, mentre il primo grande successo di pubblico e di critica l’abbraccia con il romanzo La lunga vita di Marianna Ucrìa (1990), vincitore del premio Campiello; Buio, del 1999, vincerà invece lo Strega. Con Bagheria (1993), romanzo attraverso cui la scrittrice insegue il fantasma di un padre tanto amato ripercorrendo le tappe della sua infanzia in Sicilia, si apre il genere autobiografico, […] riproposto poi con La nave per Kobe (2001) e Il gioco dell’universo. Dialoghi immaginari fra un padre e una figlia (2007). Il recupero di memorie sommerse si fa negli anni sempre più urgente: contro la cultura del consumismo, Dacia Maraini dirà di sentirsi in dovere di coltivare la memoria come una “giardiniera paziente”. In questa direzione vanno i racconti di La ragazza di via Maqueda (2009) e gli articoli de La seduzione dell’altrove (2010), opere che ai ricordi personali uniscono acute analisi sulla società» (Anna Fioravanti). Tra gli ultimi romanzi (tutti editi presso Rizzoli), Chiara d’Assisi. Elogio della disobbedienza (2010), personale rilettura della vita della santa («Da tempo mi interessano le mistiche, e lei è stata la prima, colei che ha dato il via a quest’idea trasgressiva del rapporto diretto con Dio, senza passare attraverso le istituzioni. Questo era eversivo. Fosse stato per la Chiesa, lei e le sue sorelle sarebbero state bruciate vive o cancellate. Ma avevano un grande successo di pubblico: anche se in clausura, cioè prigioniere, la gente accorreva da loro»), La bambina e il sognatore (2015), dove per la prima volta protagonista e narratore è un uomo (un maestro elementare), e Tre donne. Una storia d’amore e disamore (2017), sui modi di vivere l’amore propri delle diverse stagioni della vita • Nell’ottobre 2017 ha festeggiato il traguardo del milione di copie vendute in Italia dal suo romanzo più famoso, La lunga vita di Marianna Ucrìa (Rizzoli). «In controtendenza rispetto al mercato editoriale, che sfratta in tempi record i romanzi dalle librerie, una storia uscita nel febbraio del 1990 si rivela più viva e amata che mai: 73 ristampe e nuove edizioni, traduzione in 25 lingue e diritti venduti in altrettanti Paesi, Cina inclusa. E una protagonista che proietta la sua identità dalla Sicilia della prima metà del Settecento sino alle lettrici e ai lettori di oggi: ragazzina sola, muta, vittima della violenza e dello strapotere maschile. […] “Se facciamo un’analisi proiettata nei secoli, vediamo che molte cose non sono affatto cambiate. Ci sono donne alle quali è ancora negata la parola. E il corpo di Marianna Ucrìa, che reagisce alla violenza col mutismo, rappresenta la parola tagliata nella storia”» • Grande nostalgia per la vita sociale e culturale romana degli anni Sessanta e Settanta. «“Andavamo da Rosati, che era un posto molto diverso da quello che è oggi. Non era per i turisti, era il caffè degli artisti. Incontravi Calvino, Fellini, Pasolini, Guttuso, Moravia, Natalia Ginzburg, Elsa Morante. C’erano due o tre trattorie, molto alla buona, dove ci vedevamo tra scrittori. Ma non era vita mondana. Non c’erano né macchine né vestiti eleganti, né case di lusso, né niente. Soprattutto si parlava. Anche di politica, non solo di arte o di letteratura. […] “In quel periodo, nel nostro giro, c’erano anche Schifano, Titina Maselli e Franco Angeli. E Federico Fellini: Roma era una specie di salotto, nel senso migliore del termine”. E Pasolini? “Pier Paolo è diventato un amico carissimo: c’era, tra noi una grande solidarietà. Era uomo di lunghi silenzi, riservato, in certi momenti quasi muto. Pieno d’idee, di progetti. Insieme nel ’74 abbiamo scritto Il fiore delle Mille e una notte”. […] Leggendari sono i vostri viaggi. “Ne abbiamo fatti molti, in India, nello Yemen, ma soprattutto in Africa. Almeno dieci volte. Viaggiavamo in gruppo, con Alberto, qualche volta ci accompagnavano Ninetto Davoli o i fratelli Citti. Andavamo con le tende nel deserto, nelle missioni, nelle caserme. All’avventura, sempre lontano il più possibile da mete turistiche”» (Truzzi). «È finita negli anni Ottanta quell’atmosfera di grande entusiasmo e solidarietà fra gli scrittori. Ci si vedeva con Bassani, Calvino. Ora l’ambiente è frammentato e disgregato. Mi trovo bene con gli studenti, vado volentieri nelle scuole. Preferisco parlare con i giovani piuttosto che con gli adulti». «Sono una sopravvissuta. Troppi amici con cui ho condiviso gioie e dolori se ne sono andati. Il cuore è diventato un cimitero. A questo proposito, alcuni anni fa ho scritto un libro, La grande festa» • «Profondo e duraturo il rapporto con Moravia. «C’è stato fra noi un grande amore. Io lo consideravo un marito ma anche un padre, e in certi momenti perfino un figlio. Per fortuna aveva conservato dentro di sé un bambino ingenuo e candido che innamorava. Stavamo bene insieme». «“Siamo andati a vivere insieme quando io avevo 26 anni e lui 58: ma l’amore non bada alle età. Sono stati 15 anni molto intensi, molto vivi e felici. Lui era affascinante, spiritoso, un grandissimo narratore di storie. La sua compagnia era una gioia. […] Con Elsa non c’è mai stato un attrito: avevo un rapporto molto bello, sereno con lei. Mi chiamava quando leggeva un mio libro, parlavamo a lungo, la andavo a trovare. Si faceva il Natale a casa sua, con Visconti prima, poi con Bill Morrow, e lei organizzava la pesca dei regali”. Con Moravia vi scambiavate idee mentre scrivevate? “A cose fatte, ma mai mentre lavoravamo. Eravamo gelosissimi, entrambi, delle nostre cose”. Perché è finita? “Gli amori, anche i più belli, si consumano, ci si allontana. Poi lui si è innamorato di un’altra donna, Carmen Llera, una giovanissima e bella e colta spagnola. Questo non ci ha impedito di rimanere legati e sempre molto amici. Non ci sono stati rancori o allontanamenti traumatici. Fino alla fine”» (Truzzi). «Il giorno prima di morire venne a casa mia. Mi disse: "Carmen è in Marocco. Mi accompagni a Sabaudia, ché ho dimenticato le mie scarpe?"». In seguito visse un grande amore con l’attore, artista e musicista Giuseppe Moretti (classe 1960), che a causa di una leucemia morì prematuramente nel 2008, a 47 anni, assistito fino all’ultimo dalla Maraini. «La vita è piena di misteri e di cose inaspettate. Tu credi di prepararti a un certo futuro, ed ecco che ne arriva un altro tutto inatteso. E a volte, pensando a lui, sono scontenta anche di essere felice» • «Tratti inconfondibili, senza età: gli occhi azzurri, sottolineati dall’ombretto in nuance, i capelli biondi corti, l’impalpabile sciarpa al collo, il discorrere sommesso e lieve» (Marisa Fumagalli) • «Amo toccare i cibi, prepararli, cuocerli, condirli. Forse perché negli anni del campo ho talmente sofferto la fame che sognavo i cibi. A volte avevo delle allucinazioni: vedevo in una pietra una pietanza, come succede a Charlot che mette a bollire la scarpa e si lecca le stringhe. Non cucino la carne, però. Amo troppo gli animali. Cucino verdure in tutti i modi, e primi piatti. Una mia specialità? Gli spaghetti col limone» • «Non so cosa sia la mondanità. Odio i vestiti firmati, le macchine di lusso, i salotti dove si incontrano persone in vista. Faccio una vita da certosina: scrivo chiusa in casa. Esco solo per fare la spesa, per andare a qualche mostra, vedere qualche film e assistere a molti spettacoli teatrali». «Mi siedo e scrivo. Mattina e pomeriggio: tutti i giorni. E questo da quando ho 13 anni. Basta che ci sia il silenzio assoluto». «Ogni scrittore ha il suo metodo creativo e i suoi processi, a me succede così: parto dal personaggio che bussa alla mia porta e chiede di essere raccontato. Da dove vengano questi personaggi, io non lo so. […]. Qualche volta ho paragonato lo scrittore a un palombaro che scende nelle acque buie dell’inconscio collettivo, raccoglie degli oggetti e li porta alla luce. Quegli oggetti ci sono già: non li inventa lui, ma li porta in superficie perché ha la capacità di comunicare con le parole, fa riconoscere alla gente quello che già c’era nell’inconscio collettivo ma non era ancora venuto del tutto alla luce». «Spesso, per disegnare personaggi forti e coraggiosi, mi sono ispirata a mia madre, che è stata una donna tenace, pratica, di grande coraggio e determinazione. Se non fosse stato per lei, non so se saremmo sopravvissuti al campo di concentramento e alla guerra» (a Gabriella Galbiati) • «Il femminismo è storicamente morto, come sono morte tutte le grandi ideologie. È stato un momento storico di un movimento unito da un sentimento identitario, sostenuto da una grande utopia. Ma le ideologie, una volta applicate, sono state in generale dei disastri. […] Oggi, più che femminista, tendo a dire che “sto dalla parte delle donne”, “mi batto per i diritti delle donne”» (a Sabina Minardi). «Non credo che esista una letteratura al femminile: lo stile è personale e non ha nulla a che vedere col sesso di un autore. Esiste, però, un punto di vista. E, siccome il punto di vista è storico, esiste un punto di vista delle donne come esiste un punto di vista africano o un punto di vista occidentale» • «Non sono un’atea, sono un’agnostica. Non mi interessa la religione in quanto sistemazione del mondo. Però mi interessa la dimensione della spiritualità» (a Maria Serena Palieri) • «È una scrittrice che riesce a dare complessità a una lingua abbastanza comune, ma lavorata con cura. È un talento che la critica – malevola se non proprio ostile, in un passato ormai lontano – le ha riconosciuto solo sull’onda del grande successo di un libro “semplice” eppure densissimo come La lunga vita di Marianna Ucrìa, long-seller da più di un milione di copie» (Luciana Sica). «Da un po’ di tempo in qua crede di essere un’intellettuale: per di più un’intellettuale “civile” o, come si diceva una volta, “engagée”. Contrabbandare buoni sentimenti è il modo migliore per strappare l’applauso, e la sola preoccupazione di Dacia Maraini è strappare l’applauso delle signore per bene che si commuovono di fronte alle brutture del mondo» (Fabrizio Rondolino) • «La felicità la si scopre sempre dopo, quando non c’è più. Ci sono stati molti momenti felici nella mia vita, e me ne accorgo solo ora». «Il più grande complimento che uno mi possa fare è che i miei libri tengono compagnia. Perché il libro deve tenere compagnia, lo deve fare in un senso profondo». «Il campo di concentramento ha ovviamente rappresentato per me un’esperienza terribile, che mi porto addosso come una ferita non ancora sanata. Infatti non sono mai riuscita a scrivere un libro sugli anni nel campo di concentramento: ne ho parlato qui e là, ma un libro intero non sono ancora riuscita a scriverlo: è un ricordo che smuove troppo dolore. Però ho promesso a me stessa che prima di morire lo scriverò, e lo farò».