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 2018  novembre 12 Lunedì calendario

La balena di Sepulveda

Ogni tanto, in letteratura, uno scrittore entra dentro un classico e non si accontenta di leggerlo o rileggerlo, ma sentendo che in quelle pagine scorre sotterranea una seconda trama decide di scriverla ribaltando il precedente punto di vista e proponendone uno diverso. Accade dunque che nel nuovo libro a parlare sia un personaggio chiave, rimasto muto perché utilizzato a fini simbolici o funzionali: è successo quando Jean Rhys con Il grande mare dei sargassi (Adelphi) ha dato voce alla prima moglie di Rochester, bollata e archiviata come “pazza” in Jane Eyre, o quando Kamel Daoud ha rovesciato la prospettiva de Lo straniero di Camus ne Il caso Meursault (Bompiani) sostituendo uno sguardo arabo a quello francese. Succede ora con Moby Dick: nel capolavoro di Melville la balena è così importante da dare il titolo all’opera intera, ma noi di lei conosciamo solo ciò che le si avvicenda intorno, quali effetti scatena negli uomini. Non sappiamo cosa direbbe se potesse parlare, né una scrittura realista potrebbe dircelo. Per saperlo, dobbiamo sognare. Serviva quindi una favola per dare consistenza al capodoglio color della luna, servivano l’immaginazione potente e la libertà della narrazione per l’infanzia; serviva uno scrittore a suo agio nella letteratura per ogni età e allo stesso tempo provvisto di una visione politica del mondo. Ribaltare la prospettiva è sempre l’inizio di una rivoluzione.
Con Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa (Guanda, traduzione di Ilide Carmignani, illustrazioni di Simona Mulazzani)), Luis Sepúlveda è esplicito fin dal titolo: a parlare sarà lei, Moby Dick. Su una spiaggia sassosa vicino Puerto Montt, il mare ha trascinato e abbandonato il cadavere di una balena, forse si era persa, forse si era intossicata mangiando la nostra spazzatura. L’autore dice che i fatti avvengono una mattina del 2014, quindi non può trattarsi dell’ottocentesco Mocha, ovvero Moby, il cetaceo che fu fonte di ispirazione per Melville, evocato nella nota finale. Oppure sì: è proprio lui. In fondo, la balena senza vita che approda in Cile incarna tutte le balene del Pianeta, e con il suo corpo zittisce gli umani, li fa vergognare della loro brutalità. Come recita Plinio il Vecchio nell’esergo: “L’occhio della balena registra da lontano ciò che vede negli uomini. Custodisce segreti che noi non dobbiamo conoscere”. I pescatori sono tristi, sanno che dovranno farle un funerale per onorarla e darle l’ultimo addio. E i pescatori, si sa, sono persone che sanno molte cose.
Ma a sapere proprio tutto non è uno di loro, bensì un personaggio fuori dall’ordinario, intanto perché lafkenche (i lafkenche, Gente del Mare, sono uno dei gruppi Mapuche, indigeni cileni: per loro le balene sono sacre) e poi perché bambino. Da una conchiglia portata dal bambino lafkenche e avvicinata all’orecchio del narratore sgorga allora una storia, è la balena a dire “io”. È lei a narrare della paura che gli uomini hanno di lei, degli incontri con i balenieri, di come i capodogli devono difendersi dagli umani ma anche dal mare e dalle sue tempeste.
Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa ripete la magia delle altre storie di Sepúlveda e ne ripeterà il successo, perché lo scrittore cileno possiede le chiavi universali che aprono tutte le porte, le chiavi della favola. Una favola non è altro che il posto dove a dire la verità sono gli animali, ovvero la nostra parte più ancestrale; un posto dove, attraverso una lingua che non mette in difficoltà nessuno, si raccontano le vite di tutti. Una favola è una storia ad altezza di bambino che, fornendogli un pensiero adulto, lo rende la persona più adatta a comprenderlo: ecco perché Esopo e Fedro non invecchiano e le loro morali, pur esplicite, non risultano pesanti. “La balena parla di ciò che muove gli uomini” si intitola uno dei capitoli di questo libro, ed è quello che fanno gli animali delle favole: spiegare agli uomini chi sono gli uomini, metterli davanti allo specchio. Servono un capodoglio dall’altra parte dell’oceano, una conchiglia parlante, la ritrosia e il coraggio di un bambino indigeno per scoperchiare i nostri movimenti più segreti. Serve lo sguardo di un grande scrittore per seminare pace e amicizia senza lasciare tracce di stucchevolezza. Secondo un antico rito, quando un lafkenche moriva il suo corpo doveva essere disteso sulla riva del mare con il viso rivolto al cielo e dieci pietre turchesi sui palmi delle mani. Quelle pietre erano il compenso per le balene che avrebbero traghettato la sua anima sull’isola Mocha. Se sono le balene ad accompagnare gli umani nell’aldilà, dev’essere vero anche il contrario: ecco come l’addio alla balena del bambino misterioso diventa anche quello dei pescatori, dello scrittore, e di noi tutti.