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 2018  novembre 12 Lunedì calendario

Iri, io ci sono stato e, credetemi, non si può rifare

Venticinque anni fa, io ricoprii la carica di vicepresidente del grande Iri, che in precedenza era stata del repubblicano Bruno Visentini. Durò 16 mesi, finché l’ente fu soppresso, in un momento di transizione tremenda del Paese e poi di crisi della lira, di cui paghiamo ancora le conseguenze. Mi bastò per produrre anticorpi verso i grandi enti statali ma anche attenzione sincera alle motivazioni economiche e politiche sottostanti. Innanzitutto, è comprensibile che un paese a debole economia di mercato senta il bisogno, soprattutto in fasi storiche avverse, della presenza di un grande operatore a capitale pubblico, magari perché gli imprenditori privati nazionali non hanno interesse o soldi, o perché i grandi capitali esteri non sono attratti da quel paese proprio in quanto a debole economia di mercato. 
Il governo di turno si assume la paternità dell’intervento pubblico e investe capitali in opere anche importanti. I guai cominciano quando i partiti al governo ci si buttano e ottengono favori di ogni genere. Alla fine fanno rimpiangere i privati. È avvenuto tre volte nell’ultimo secolo. 
Manager e politicaLa prima nel 1933, per reazione alla grande crisi del ’29 e per salvare le banche nazionali, il governo adottò uno strumento temporaneo (si dice sempre così) e creò l’Iri (Istituto per la ricostruzione industriale), salvo trasformarlo quattro anni dopo in ente permanente. 
La seconda volta, nel Dopoguerra, il paese fragile aveva bisogno di ricostruire le infrastrutture e l’Iri realizzò e gestì autostrade, telecomunicazioni, mezzi di trasporto terrestri, aerei e navali, sistemi di difesa, materiali da costruzione (cemento, acciaio) e credito (banche). Il management era di prim’ordine, una vera e propria scuola. Famosi economisti vi si formarono. Negli anni Settanta, con la raccomandazione di partiti e sindacati recapitata ai vertici permeabili delle società del gruppo, l’Iri acquisì imprese private perdenti per fare favori a destra e sinistra. Negli anni Ottanta, senza risanare o eliminare i punti di perdita, l’Iri compensò le emorragie con trasfusioni a carico dei contribuenti, 5 mila miliardi di lire all’anno, dapprima con trasferimenti di finanza pubblica e poi con prestiti convertibili in azioni e rimborsati dal Tesoro dello Stato. Ciò contribuì all’esplosione del debito pubblico che oggi pesa sulle nostre spalle. 
Siccome le disponibilità finanziarie non risolvono i problemi economici, gli utili grassi dei servizi pubblici in monopolio (telefonia, autostrade) servivano a coprire le perdite del resto e la gestione chiudeva in pareggio, con un fatturato netto consolidato equivalente a 33 miliardi di euro. All’inizio degli anni Novanta, finiti i soldi dello Stato, dichiarati incostituzionali i prestiti, finita la tolleranza del mondo occidentale, l’Ue impose di trasformare l’ente Iri in spa e di farla finita a sprecare finanza pubblica. Il governo si vantò di aver privatizzato. Pubblicai il pamphlet «Iri Spa, storia di una finta privatizzazione» (Sperling&Kupfer). 
RitorniLa terza fase storica è di oggi e vede un ritorno della mano pubblica. È comprensibile, perché le graduatorie mondiali di competitività misurano il nostro gap nelle infrastrutture e dicono che c’è un maledetto bisogno di investimenti. Ma non si fa un organico progetto di competitività, e si ricorre alla mano pubblica. Al posto dei contribuenti del Fisco, ora sono stati agganciati i piccolissimi risparmiatori postali. 
Nel 2003 la vecchia Cdp (Cassa depositi e prestiti), che gestiva questo risparmio dal 1875, fu allontanata dal perimetro dello Stato e trasformata in holding. Oggi ha una raccolta di risparmio postale per 250 miliardi di euro, un volume di affari di 33 miliardi (pari al fatturato Iri del 1990), controlla le reti in monopolio (gas di Snam ed elettrica di Terna), e poi Fincantieri, Eni, Poste e tanto altro (immobiliare, assicurativo, biofarmaceutica, macchinari per energia, turistico-alberghiero, alimentare). Il management è di prim’ordine, ma a guidare le scelte sembra sia una cultura più finanziaria che economicistica. La redditività viene dai monopoli di Snam Rete Gas e di Terna, strabiliante, dieci volte quella delle imprese industriali strette tra la concorrenza dei mercati e le tariffe alte di gas ed elettricità. 
Cassa Depositi spaPer statuto, la Cdp non può acquisire aziende perdenti come faceva l’Iri. Il governo Lega-5Stelle in tutti i modi, finora senza riuscirvi, ha provato a rifilarle Alitalia e Ilva. Perciò, l’utile netto 2017 (2,2 miliardi di euro) non è andato a coprire perdite. Ma per due terzi (1,3 miliardi), invece di essere reinvestito dalle controllate nelle infrastrutture del Paese, è stato distribuito agli azionisti, per più dell’80 per cento al Ministero dell’Economia e delle Finanze, che spende e spande in disavanzo. Dalla padella nella brace. 
Ultima questione: la Cdp resta un grande ente, pur essendo una Spa allontanata dal perimetro dello Stato, tant’è vero che il potere di nomina dei suoi vertici è nelle mani del governo. La vicenda dell’Agenzia spaziale italiana è un avvertimento. Per questa stessa ragione, i nuovi vertici di Fs, grati, si accollano le perdite Alitalia. È questo il governo del cambiamento?