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 2018  novembre 12 Lunedì calendario

I volti valgono più delle aziende

Si chiama Age of you e l’espressione è abbastanza efficace da non richiedere traduzione. Quella che stiamo vivendo è la quarta era del marketing, viene dopo quella «dell’esperienza» e, secondo Manfredi Ricca, direttore strategia per l’Europa di Interbrand, la società di consulenza che ogni anno studia i marchi a maggior valore economico, ha un tratto distintivo sopra tutti: la personificazione del brand. «Non c’è mai stata tanta simbiosi tra brand e persone: le aziende sono sempre di più rappresentate da persone e devono vivere sempre di più intorno agli individui – spiega il manager —. In un certo senso, il rapporto tra brand e persone sarà fondato sempre meno da contratti commerciali, e sempre più da contratti emotivi». 
Il peso dell’intangibileEsempi ne troviamo, per esempio, già in ambito sportivo. Lebron James o Cristiano Ronaldo o Roger Federer, oltre che atleti sono veri e propri brand: riescono a creare valore, attirando su di sé gli investimenti e le sponsorizzazioni delle aziende. Ma come siamo arrivati dal prodotto-brand alla persona-brand? «Un brand corrisponde alla promessa di un’esperienza – spiega Ricca —. Ora, questo è abbastanza intuitivo per un prodotto o un servizio; ma vale lo stesso nel caso di un artista, o di un atleta, che genera l’aspettativa di un’esperienza artistica o sportiva, crea attenzione, ammirazione e immedesimazione. Il secondo motivo è più attinente ai nostri anni. Oggi chiunque abbia accesso a un social media gestisce la propria individualità come un brand, fondato su una specifica identità e destinato a una determinata cerchia di pubblico. Nel caso di un personaggio, l’approccio è professionalizzato, e l’impatto amplificato».
Gli studi in questo campo si moltiplicano. Interviene Stefania Romenti, professore di gestione di imprese e comunicazione strategica all’università Iulm di Milano: «La componente intangibile di un’azienda e di un business conta oggi per l’80% del valore di mercato delle 500 aziende che compongono l’indice Standard & Poor’s. Era il 20% quarant’anni fa. Ha a che fare, per esempio, con la comunicazione e la reputazione di un brand, che in quanto portatore di valore economico e fiduciario verso il consumatore, ha bisogno di essere gestito». 
Quello delle giovani coppie di reali del Regno Unito è un ottimo modello di gestione del brand. «Anche il nostro made in Italy lo è – sottolinea Romenti —: siamo all’ottavo posto nella classifica di valore dei brand dei Paesi nel mondo». Una posizione ottenuta anche perché siamo stati bravi a dare voce al le nostre eccellenze. «Con una buona comunicazione, il brand può aumentare la sua statura, vale a dire la reputazione e la familiarità – e la sua forza, cioè quanto è in grado di distinguersi dagli altri nei valori che rappresenta. Le giovani mogli dei principi inglesi, per esempio, hanno fatto della loro diversità – non hanno sangue blu, Meghan addirittura è meticcia e divorziata – una storia distintiva». 
Per il consumatore la proiezione risulta allora più immediata: basta andare da Zara per vestirsi come la duchessa di Cambridge. «Credo che non si tratti tanto di imitazione, ma di influenza – riflette Ricca —. In passato le tendenze erano definite e pubblicate dai media, oggi vivono in tempo reale, per esempio su Instagram, e sono disintermediate: possono derivare da persone note, ma anche da perfetti sconosciuti. Viviamo nell’era dell’istantaneità e dell’abbondanza di scelta, e c’è spazio, ma pochissimo tempo, per tutti».
In questa nuova fase del marketing, il concetto di testimonial è superato. «In particolare le generazioni più giovani, ricercano autenticità e ispirazione: funzionano quindi, parlando di conto economico, quelle esperienze in cui brand e personaggio condividono una causa, una storia e una filosofia e, in un certo senso, puntano a cambiare il mondo insieme. L’esempio di Nike con il quarterback Colin Kaepernick è perfetto: la multinazionale ha sposato una posizione politica e sociale chiara (contro Trump), ha snobbato i clienti che non voleva ed è invece entrata in totale sintonia con quelli cui è interessata», dice Ricca. 
Ma se i Millennial credono di più alla persona che al prodotto, mentre monta lo scetticismo verso istituzioni e multinazionali, la generazione Z a chi crederà? «Secondo me la domanda da porsi è: a cosa darà fiducia ? – riflette Ricca—. E la risposta è: ai fatti e i comportamenti. Ieri un brand era prevalentemente quello che un’azienda diceva e come appariva. Oggi è quello che fa e ciò che gli altri ne pensano. Con uno smartphone e qualche minuto di tempo è possibile conoscere molto di un’azienda, incluso ciò che i dipendenti ne pensano. Il re è nudo, ed è quindi bene che sia in forma».