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 2018  novembre 12 Lunedì calendario

Super crescita e nuovi dazi, è sempre lo stesso Trump

Non dobbiamo sentirci unici. I famosi mercati non guardano solo il debito pubblico italiano. Reagiscono con un po’ di nervosismo anche a quello americano. Un aspetto finora poco commentato delle elezioni di mid-term negli Stati Uniti, la settimana scorsa, è l’andamento dei tassi d’interesse sui Treasuries (i bond americani) mentre arrivavano i risultati del voto. All’inizio, ogni volta che si registrava la vittoria di un candidato repubblicano, i tassi salivano. Quando è stato chiaro che i democratici avrebbero riconquistato la maggioranza alla Camera dei Rappresentanti, i rendimenti sono tornati dov’erano prima.
Non è che gli investitori preferiscano i blu rispetto ai rossi, cioè i democratici ai repubblicani. Sui mercati, l’idea era che, se il suo partito avesse mantenuto la maggioranza in entrambi i rami del Congresso, Donald Trump avrebbe probabilmente deciso un nuovo taglio delle tasse o un piano massiccio di investimenti e quindi fatto salire ulteriormente deficit e debito pubblici. Con il risultato che la Federal Reserve di Jerome Powell avrebbe, per evitare il surriscaldamento dell’economia, accelerato la stretta monetaria che al momento sta conducendo con gradualità. Con mezzo Congresso nelle mani dei democratici piuttosto nervosi quando vedono il brand Trump, un nuovo stimolo fiscale disegnato dalla Casa Bianca è invece diventato praticamente impossibile. Powell e la Fed andranno dunque avanti come previsto prima delle elezioni.
La questione del debito pubblico, però, resta presente nella mente di chi investe, anche se finora non ha prodotto onde troppo alte, anzi. L’indebitamente federale sta diventando effettivamente enorme, si avvicina ai 22 mila miliardi di dollari: rispetto al Prodotto interno lordo del Paese, siamo sopra al cento per cento e il Fondo monetario internazionale prevede che aumenterà di quasi nove punti percentuali entro il 2023. Gli economisti di Deutsche Bank hanno calcolato che Washington paga quasi un miliardo e mezzo di interessi sul debito ogni giorno. In una fase in cui i tassi sono ancora abbastanza bassi.
Come mai gli investitori non hanno ancora reagito a questo squilibrio finanziario e continuano a comprare Treasuries? Una risposta è naturalmente che il mondo acquista sempre dollari, la valuta indispensabile nell’economia globale. Una risposta più di attualità è che l’economia americana sta dimostrando di essere portentosa e risponde in grande agli stimoli introdotti da Trump con la riduzione delle tasse lo scorso dicembre – 1.500 miliardi di dollari – e con la deregulation in alcuni settori.
Il Pil americano è aumentato del 2,2% nel primo trimestre di quest’anno, del 4,2% nel secondo, del 3,5% nel terzo. Per l’intero 2018, la crescita sarà attorno al 3%. Tra le grandi economie, è quella che ha accelerato nel corso dell’anno: quella cinese e quella europea rallentano. Gli Stati Uniti creano circa 200 mila posti di lavoro ogni mese, con la conseguenza che molti che si erano messi fuori dal mercato del lavoro ci rientrano; la disoccupazione è al 3,7%, un livello bassissimo che non si registrava da decenni; i salari stanno aumentando a una velocità mai raggiunta dopo la crisi finanziaria del 2008 e durante la presidenza Obama.
Gli investitori, dunque, al momento hanno di fronte un’America a pieni giri. E quando un’economia cresce a questi livelli anche i problemi di debito sonno meno preoccupanti. Nell’Amministrazione Trump si sostiene che la crescita economica produrrà un aumento delle entrate fiscali tale da permettere di tenere il debito sotto controllo. Ipotesi tutta da verificare, naturalmente. E, infatti, la notte dei risultati elettorali i mercati hanno reagito proprio alla possibilità o meno che ci fosse nella pipeline un altro stimolo, in vista delle elezioni del 2020, finanziato a debito. La prima conseguenza del voto di mid term, comunque, è che la politica fiscale e la politica monetaria della Fed resteranno sulla traiettoria di prima delle elezioni.
Il secondo effetto è che l’imposizione di tariffe sulle importazioni, soprattutto cinesi, andrà avanti. Forse si intensificherà. Per due motivi. Innanzitutto, in fatto di dazi Trump non deve rendere conto al Congresso. In secondo luogo, la politica commerciale è forse l’unico terreno sul quale può trovare alleati tra i democratici, tendenzialmente più protezionisti dei repubblicani.
Il primo banco di prova della nuova situazione sarà il voto della Camera dei Rappresentanti sulla modifica del Nafta raggiunta dall’Amministrazione Usa con Messico e Canada. I democratici, ora in maggioranza alla Camera, dovranno decidere se votarla così com’è oppure chiedere modifiche oppure ancora pretendere altro in cambio di un voto favorevole. Il fatto è che Trump è in una posizione di forza. Ha infatti già reso noto che se il Congresso non accetta l’accordo rimaneggiato – che ora si chiama Usmca, cioè Usa, Mexico, Canada – lui lascerà semplicemente cadere il vecchio Nafta e dunque le relazioni commerciali tra le tre maggiori economie nordamericane resteranno senza un accordo di riferimento. E Trump potrà accusare i democratici di avere provocato il fallimento.
Il confronto sul tasso di protezionismo tra la Casa Bianca e la nuova Camera sarà interessante. Nelle questioni commerciali, il presidente può contare sul fast-track, sul fatto che gli accordi da lui raggiunti con altri Paesi vanno votati dal Congresso così come sono: accettati o respinti senza la possibilità di modificarli. Ma l’anno prossimo il nuovo speaker della Camera potrà rimuovere l’Umsca dalle regole del fast-track: di fatto condannandolo, perché ogni modifica andrebbe poi rinegoziata con Messico e Canada. Congresso e Casa Bianca troveranno un accordo?
In questo caso, probabilmente sì. Il che significherebbe che il presidente sarà ulteriormente incoraggiato nella sua linea di scaramucce con gli alleati e di guerra commerciale con la Cina. Non che Trump abbia bisogno di incoraggiamenti: se qualcosa i suoi primi due anni da presidente raccontano è che le elezioni della settimana scorsa lo renderanno ancora più battagliero. Ha le piume bagnate ma, qualsiasi cosa facciano i democratici, il suo obiettivo rimane la riconferma nel 2020: i prossimi saranno due anni aggressivi, molto aggressivi.