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 2018  novembre 12 Lunedì calendario

Intervista all’ex pugile Gerry Cooney

È stato il primo first billion dollar baby. Era bianco, alto, grosso. Un peso massimo da 1.98. L’anti-Tyson, non amava colpire in faccia. Ma pugno sinistro devastante, da forza G. Oggi Gerry Cooney, non George Clooney, ha 62 anni, 3 figli, una sciatica che lo porta a dire: «Dispiace se faccio un po’ di stretching qui per la strada?», e intanto regala 20 dollari agli homeless che incontra, con le parole: «Meriti un buon pasto». Gerry festeggia 30 anni da sobrio. «Disintossicarsi dalle droghe è stata dura, ma dall’alcol ancora di più». Origini irlandesi, anche se la faccia era da Rocky. Cooney nell’82 ha diviso l’America: era the "Great White Hope", la Grande Speranza Bianca che doveva scacciare l’Uomo Nero dal regno dei massimi.
Nell’82 lei sfidò Larry Holmes per il mondiale.
«Ali si era ritirato, ma era arrivato Holmes, suo ex sparring. Montarono una guerra razziale: io dovevo essere il vendicatore dei bianchi. Se l’America non aveva digerito Ali, io l’avrei rimessa in salute. La rivistaTime mi mise sulla copertina insieme a Sylvester Stallone che stava girando Rocky 3. Eravamo la riscossa bianca. Holmes, il campione, relegato nelle ultime pagine, s’imbestialì».
Il presidente Reagan fece mettere una linea diretta nel suo spogliatoio.
«Avrebbe voluto essere il primo a congratularsi, visto che un campione bianco mancava da 22 anni. Sembrava di essere tornati ai tempi di James Jeffries contro Jack Johnson. L’ultimo bianco a dominare la categoria, con l’eccezione dello svedese Ingemar Johansson, campione dei massimi per un anno nel ’59, era stato Rocky Marciano, ritiratosi nel ’56, anno in cui ero nato io. Però non ero americano solo io, lo era anche Holmes».
Niente male la sua borsa: 10 milioni di dollari.
«Fui il primo a guadagnare così tanto, e da sfidante. Mi criticarono: dissero che ero solo un pallone gonfiato, che facevo soldi perché ero un pupazzo bianco. Il colore della pelle non era colpa mia, ma riuscirono a farmi sentire in colpa. Ero fragile, tornarono a galla le parole di mio padre: sei un buono a nulla, non vali niente».
Suo padre Tony era operaio.
«Siderurgico. Ma anche violento e alcolista. Tornava a casa ubriaco e prendeva a cinghiate me e i miei fratelli. Io fuggivo in cantina sognando di essere invisibile. A Natale gli consegnai la lettera dei desideri: mi picchiò in faccia. Non hai bisogno di niente, aggiunse. Era casa sua, c’era la sua legge. Avevo i capelli lunghi, non approvava e non mi faceva entrare, restavo a dormire fuori sugli scalini. Morì di tumore ai polmoni, malattia professionale, io avevo 16 anni, continuò a minacciarmi anche quando l’accompagnavo a fare la chemio. Ero grosso, l’avrei potuto ammazzare, ma non potevo colpire mio padre. Mi ha fatto molti danni, trasmettendomi disistima e insicurezza».
Reagan non chiamò.
«No, perché persi. Il mio trainer, spaventato dalla violenza del match, gettò l’asciugamano alla 13esima. Ma a tutti interessava solo quel telefono in linea con la Casa Bianca. Avevo 23 anni, ero pieno di rabbia, non mi fregava di Reagan, ma non volevo scatenare una guerra razziale. In tanti erano pronti a sparare, il governo chiese l’intervento dei servizi segreti. Il mio manager all’angolo continuava a urlarmi: fallo per l’America. E io non contavo niente? Era boxe, non la supremazia di una razza. A me e Holmes toccò andare a calmare le nostre comunità. Ci furono cinque suicidi, credo per scommesse perse. Il buffo è che due fratelli di Holmes erano sposati con donne bianche e che i miei antenati da parte di madre venivano dall’Africa. Io e Larry oggi siamo amici».
Il suo gancio sinistro, left letal, non la salvò.
«Non bastò, e nemmeno un pesante montante al quarto. Riconobbero che avevo lottato, pure se con un occhio chiuso. Il mondo della boxe fa schifo: ti mandano al macello, ti usano per far soldi, non per farti crescere. Per battere Holmes mi serviva più esperienza. Avevo alle spalle 25 vittorie, una media di 3 round a combattimento e 45 minuti di boxe. Troppo pochi. Il destro mi faceva solo da scudo, non sapevo difendermi. Come grida Marlon Brando inFronte del Porto: "Avrei potuto essere qualcuno". Io pure, sottoscrivo. Ma non mi ero affidato a Don King, e me la fece pagare: ribadendo che io ero irish, white, catholic. Una razza da abbattere».
Però 10 milioni a 23 anni.
«Danno alla testa. Io non mi sentivo all’altezza di niente. Iniziai a bere e a drogarmi, anche quando mi allenavo. Stessa cosa mio fratello, ma quando si presentò a casa ubriaco con un fucile, chiamai la polizia. Feci a pugni fuori da un bar di Harrisburg e venni arrestato. Andai in rehab, tre mesi dopo ci ricascai, riprovai a disintossicarmi, nell’88 con gli alcolisti anonimi ci sono riuscito. Ora capisco quello che prima mi sfuggiva».
Cosa?
«Che devi fare pace con te stesso, altrimenti la porta continua a sbattere. Ho una nuova moglie e tre magnifici ragazzi, due femmine e un maschio. Loro non hanno dovuto passare il mio inferno. Mio padre mi ha sempre massacrato e quella è una ferita che ha tardato a chiudersi. Lo sport ti fa volare sull’infelicità ma non la risolve. Quando senti di non meritarti niente, non dai valore a niente».
Ma se buttò giù Ken Norton in 54" nell’81.
«Quel successo al Madison Square Garden è stata la mia fine, mi ha mandato su di giri. Norton era stato il secondo uomo a battere Ali, dopo Frazier. Un anno prima avevo messo ko Jimmy Young che nel ‘76 aveva portato Ali alla distanza, e poi Ron Lyle che aveva affrontato Ali e Foreman. Non è come oggi, allora i migliori si incontravano, non si scansavano».
Cosa fa ora?
«Sostengo il movimento "Hands are not for hitting", contro la violenza domestica, mi occupo dei vecchi pugili, alleno i giovani, curo iniziative sociali. Non sono in rovina, anzi, mi sono affidato a un amico di Wall Street che ha fatto fruttare i miei soldi. E ogni giorno ringrazio Dio di non aver dovuto alzare quel telefono».
Contento di non aver risposto a Reagan?
«Soprattutto di non essere diventato l’eroe bianco. Sentire il pubblico chiamare il tuo nome è una droga magnifica, ma se quella notte contro Holmes fossi diventato "the Great White Champ" mi sarei perso ancora di più. Cadere mi ha fatto male, vincere mi avrebbe fatto peggio. Invece di alzare gli occhi al cielo, li ho dovuti abbassare per scoprire che esisteva un altro Gerry, un tipo che finalmente mi piaceva».