17 ottobre 2018
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Biografia di Rolando Panerai
Rolando Panerai, nato a Campi Bisenzio (Firenze) il 17 ottobre 1924 (94 anni). Baritono. «A me Jago è piaciuto sempre, ma nessuno me l’ha mai offerto. Io son stato sempre quello che non ha mai avuto contatti con le direzioni dei teatri. Ogni tanto trovavo un collega che mi diceva: “Sai? M’hanno detto ‘Cosa vuoi fare? questo o quest’altro?’”. E io: “Beato te!”. A me invece dicevano: “Se lo vuoi fare, è questo!”. E, se non lo voglio fare, rinuncio… perché, quell’altro, non me lo danno!» • «Sono nato a Campi Bisenzio, ma quando avevo cinque anni la famiglia si trasferì a Firenze». «Noi in famiglia eravamo tre fratelli. Con il tesseramento, nel periodo di guerra, si mangiava poco (era salutista perché ci si manteneva in forma, ma si aveva spesso fame!). Io andavo a cercare nei negozi, tra i conoscenti, da chi ci allungava un po’ di pane in più o dal macellaio. Con la figlia del macellaio, una certa Norma (il nome dice tutto…), ebbi un litigio non so per quale motivo. Noi campigiani (di Campi Bisenzio) siamo dei vocioni: quando parliamo sembra sempre che litighiamo, e quando poi litighiamo… Questa ragazza, che era una cantante dilettante, mi disse: "Senti che voce che hai: domani ti porto dalla mia maestra". Da lì ho scoperto la mia voce. L’audizione con la sua maestra non è stata positiva, però poi siamo andati dal maestro Frazzi (di origini parmense, proveniente da una famiglia di musicisti) [Raoul Frazzi (1896-1962) – ndr], che è stato il mio unico maestro di canto». «Non ho mai frequentato il conservatorio». «Io ho avuto un solo maestro di canto nella mia vita, il maestro Frazzi, mentre all’epoca mia tutti i ragazzi che studiavano canto, e ce n’erano tanti, cambiavano in continuazione, magari anche dopo essere rimasti senza voce durante un vocalizzo. Io invece non cambiavo, perché con il maestro ci discutevo e ci facevo delle litigate enormi: era il modo migliore. Si discuteva ad esempio per un vocalizzo fatto con una vocale piuttosto che con un’altra». «Nel frattempo – erano gli anni della Seconda guerra mondiale – non ho mai smesso di lavorare con mio padre nella fabbrica di scarpe della mia famiglia: disegnavo i modelli da donna. Quando arrivarono le prime scritture dovetti lasciare la ditta» (a Pierachille Dolfini). «Io ero un ragazzo, avrò avuto diciott’anni, il Teatro Comunale di Firenze era distrutto perché era caduta una bomba proprio sul palcoscenico. Al teatrino di via Laura, che era il teatro degli universitari, facevano le audizioni per essere ammessi alla scuola “Centro di avviamento al teatro lirico”. A quell’epoca c’erano i più grandi che sono usciti da quella scuola: la Barbieri, Tagliavini, Bechi. Io feci l’audizione, Serafin [il celebre direttore d’orchestra Tullio Serafin (1878-1968) – ndr] era da solo con due o tre persone del teatro vicine, cantai Bella siccome un angelo dal Don Pasquale. Era una mattina uggiosa, forse ero calante. Giorgetti, un baritono dell’epoca mia con cui si studiava insieme, mi disse che coloro che aveva vicini continuavano a dirgli “Maestro, sta calando”, “Maestro, stona”, ma a lui non gliene importò nulla: lui mi prese e mi mise nella scuola. È lui che mi ha “tirato fuori” così». «Serafin aveva questo, d’importantissimo: ti diceva quello che era il tuo difetto, anche se a lui occorreva del tempo per levartelo. Serafin m’insegnava, mi manipolava, m’istruiva; era lui che doveva fare un bel dolce con gli ingredienti che aveva a disposizione, e cioè con la mia voce. Ti diceva come cantare una parte, poi spettava a te correggere. Il maestro di canto ti tira fuori la voce, il direttore amalgama». Rocambolesco il debutto al Teatro Dante di Campi Bisenzio, il 29 giugno 1946, nel ruolo di Enrico della Lucia di Lammermoor. «Era una sorta di "spedizione punitiva", perché con sole due prove si andava in scena. Per me era la prima esperienza della messa in scena di un’opera: fino ad allora avevo fatto solo concerti. Con i concerti si provavano le arie la sera prima, poi ci si dava appuntamento la sera successiva all’ora del concerto. Io, la sera dell’opera, mi sono presentato alle 9, all’ora dell’opera, come facevo in occasione dei concerti. Non le dico gli improperi che ho ricevuto dal direttore d’orchestra e dai colleghi, perché non ero ancora né vestito né truccato, e l’opera doveva iniziare! Da quest’episodio, agli appuntamenti delle prove sono sempre arrivato cinque, dieci minuti prima». «Lo spettacolo risultò un po’ improvvisato, come all’epoca succedeva nei teatri di provincia, ma fu un successo». «Noi allievi del corso il 6 marzo 1947 ci esibimmo nel Teatro Comunale con il Werther di Massenet in forma di oratorio nonostante che il bombardamento del 1° maggio 1944 avesse distrutto il palcoscenico. Dirigeva l’orchestra Luigi Toffolo. Rodolfo Moraro era l’interprete principale, a me era stato affidato il ruolo di Alberto. Carlotta era la bravissima Nora De Rosa. Trascorsi due anni dalla Seconda guerra mondiale, la città era ancora sconvolta. Con questa edizione facemmo una breve tournée in Romagna» (a Riccardo de Angelis Tommasi). Quello stesso anno vinse il primo concorso lirico organizzato a Spoleto, ottenendo così «la mia prima audizione importante a Napoli, con Siciliani [Francesco Siciliani (1911-1996), all’epoca direttore del Teatro San Carlo di Napoli – ndr]. Fu un disastro perché arrivai mezzo influenzato, ma Siciliani mostrò molta comprensione, mi ascoltò a più riprese nell’arco della giornata, e alla fine […] debuttai nel Mosè di Rossini accanto a Tancredi Pasero» (a Roberto Iovino). «Questo debutto mi procurò otto opere nella stessa stagione, al San Carlo: Rigoletto, Traviata, Barbiere, Bohème e altre, nel teatro che considero il più bello del mondo. Questo esordio mi mise subito in prima fila». «Nel giro di poco tempo arrivò alla Scala, dove debuttò nel Samson et Dalila diretto da De Sabata. Ebbe in quel periodo occasione di cantare nei Trionfi di Orff con Elisabeth Schwarzkopf, celeberrima cantante tedesca nonché moglie di Walter Legge, potente impresario della casa discografica Emi. La segnalazione della Schwarzkopf al marito procurò a Panerai il debutto discografico nell’incisione de I puritani a fianco di Maria Callas e Giuseppe Di Stefano. Con la Callas cantò innumerevoli volte, soprattutto Lucia di Lammermoor, e quella con la direzione di Karajan è considerata ancor oggi una pietra miliare nella storia del melodramma. I rapporti artistici con direttori quali Karajan, Böhm, Rosbaud portarono Panerai nel giro di brevissimo tempo in tutti i più importanti teatri europei, in produzioni di prestigio con autorevoli colleghi, registi e direttori. […] A Firenze cantò dal 1946 al 2004, alla Scala dal 1952 al 1983, alla Piccola Scala dal 1956 al 1976, al San Carlo di Napoli dal 1947 al 1971, all’Opera di Roma dal 1951 al 1979, alla Staatsoper di Vienna dal 1956 al 1998, al Nationaltheater di Monaco dal 1953 al 1987, a Salisburgo dal 1957 al 1982, ad Aix-en-Provence dal 1955 al 1972» (Lukas Franceschini). «Una lunga carriera decollata anche grazie alla tv. Nel 1954 la neonata Rai mi chiamò per il Barbiere diretto da Giulini: era la prima volta al mondo che si faceva un’opera in tv. […] Eravamo a Milano, in corso Sempione, io ero Figaro e il mio contratto era di poco più di 200 mila lire: una scrittura che molti miei colleghi rifiutarono, ma che a me servì per farmi conoscere». «Panerai, nella sua carriera sessantennale protagonista di quasi 150 titoli lirici, ha lavorato in Italia, a Vienna, Parigi, Aix-en-Provence, al Covent Garden, al Metropolitan, con i cantanti sommi del Novecento (Callas, Tebaldi, Lauri Volpi, Del Monaco, Caballé, Freni, Pavarotti), con Visconti e Zeffirelli, con Serafin, De Sabata, Gavazzeni, Karajan» (Gregorio Moppi). «Strehler, con cui nel 1955 ho realizzato alla Fenice la prima assoluta dell’Angelo di fuoco di Prokofiev, era uno che otteneva sempre quel che chiedeva. Da Eduardo ho carpito il mestiere del consumato attore di prosa, l’arte degli sguardi, la gestualità. Di Visconti ammiravo la logica teatrale assoluta. Per lui il dettato del libretto era sacro: ciò che vi si trovava scritto andava fatto». «Tutte le cose moderne e antiche che ho cantato fanno parte di un repertorio che è sicuramente interessante, però nei miei primi trent’anni di carriera ho dato spazio molto al Rossini de Il barbiere di Siviglia, al Donizetti de L’elisir d’amore, al Mozart di Così fan tutte (ho amato molto Mozart), al Puccini de La Bohème. Poi, nei secondi trent’anni della mia carriera, ho mantenuto certe opere, ma ho cambiato i personaggi: ad esempio, da giovane ho cantato Ford nel Falstaff (personaggio difficile) e poi invecchiando ho preferito fare Falstaff, oppure, nel Così fan tutte, anziché che cantare il giovane ufficiale, ho fatto Don Alfonso, il vecchio filosofo, per dare una credibilità al personaggio. Nell’Elisir d’amore, anziché fare Belcore, preferivo fare Dulcamara. Oppure nel Don Pasquale facevo appunto Don Pasquale anziché il dottor Malatesta. Questi cambiamenti di ruolo sono stati interessanti ed erano adeguati alla mia età! Amo molto poi Gianni Schicchi, perché ho conosciuto l’autore del libretto, Giovacchino Forzano, che veniva ad insegnare alla scuola di avviamento al teatro lirico del Maggio Musicale Fiorentino dove ho studiato io. Lo Schicchi per me è rimasto il sogno della vita». «Ho interpretato anche opere moderne. Per esempio, al Festival di musica contemporanea a Venezia, L’angelo di fuoco di Prokofiev, rappresentato in “prima” mondiale nel 1955. Per me ogni novità era una sfida, non ho mai avuto timore di studiare titoli nuovi. Non volevo solo percorrere il repertorio più frequentato e richiesto. La messa a punto dell’Angelo di fuoco richiese numerose prove: l’orchestra era diretta da Nino Sanzogno. Pur di esibirmi rinunciai a una quindicina di recite. Posso citare un altro caso: preferii a un Trovatore, o ad altre opere di repertorio, un lavoro di Renzo Rossellini, fratello del regista Roberto, intitolato Il linguaggio dei fiori, del 1963. La première fu allestita alla Piccola Scala. Posso vantare un’altra prima mondiale: L’ombra dell’asino, lavoro postumo di Richard Strauss (mancato nel 1949), rappresentata nel Teatro di Corte di Napoli». «“Il mio addio alla lirica risale al 2004. Il Comunale voleva organizza per me un concerto di gala. ‘Ma perché, piuttosto, non mi fate cantare nel Così fan tutte mozartiano che avete già in cartellone?’, proposi. E fui esaudito”. Poi però il grande baritono originario di Campi non ce l’ha fatta, a starsene in pantofole nella casa di Settignano. “I teatri continuano a chiamarmi; e, siccome la voce regge, non riesco a dir di no”. […] Ma lei, Panerai, com’è diventato regista? “Per combinazione. Nel 1972 venni scritturato a Genova per il Campanello dello speziale di Donizetti. Siccome la partitura è breve, mi volevano pagare metà del cachet. Per averlo intero, mi feci affidare anche la regia”» (Moppi). Tuttora attivo, negli ultimi anni si è dedicato soprattutto alla regia, legandosi in particolare, a partire dal 2011, al Teatro Carlo Felice di Genova, per il quale ha diretto Il campanello dello speziale, Gianni Schicchi (interpretandovi anche il ruolo del protagonista in tre occasioni, a 87 anni compiuti) e Rigoletto, quest’ultimo sia nel 2013 sia nel 2017, a 93 anni. «Io amo le “regie musicali”, come ad esempio la Lucia di Lammermoor che facemmo alla Scala diretta da Von Karajan, che portammo un po’ in tutto il mondo. Sono regie aderenti alla musica, regie che scaturiscono dal pentagramma, dalle note musicali. Quando gli autori hanno scritto, nella loro idea c’era già una regia dentro la musica, quindi non bisogna inventarsi nulla». «Del resto, quale regista, ancorché di talento, può permettersi di intervenire su quanto concepito da librettisti e compositori sommi? Esiste il reato di frode alimentare: andrebbe istituito anche quello di frode musicale» • «Non ho mai voluto insegnare canto, perché è una responsabilità troppo grossa. La master class è una cosa diversa, perché ci sono degli allievi che hanno già studiato e hanno già una preparazione. Mi limito solamente a dare alcuni suggerimenti, facendo esempi, che possono essere sia tecnici sia vocali sia interpretativi, ma non impongo mai nulla. […] Con i ragazzi mi preme dialogare molto, come facevo io con il mio maestro, il mio unico maestro. Auguro a tutti di avere un unico maestro, anche se ciò non significa che non si debba apprendere anche dagli altri, sia quelli che cantano meglio sia quelli che cantano peggio. Perché anche da chi canta male si può imparare: "Io così non lo farò mai!"» • «Oggi vivo in campagna, a Settignano, con mia moglie e i miei figli. Faccio l’uomo di casa. E ogni tanto, dato che la salute me lo permette, canto» • «Ogni volta che salivo in palcoscenico – e nella mia carriera ho fatto 150 opere, tanto che alcune non me le ricordo nemmeno più – amavo il ruolo che stavo interpretando. Un amore professionale, non paranoico come accade a molti miei colleghi: sono sempre andato a scavare nel perché Shakespeare, Boito, Verdi avessero scritto l’opera in quel modo. Per essere credibile, per dare un’interpretazione ogni volta ricca di nuove sfumature». «A me la voce non balla ed ho novantadue anni. Sta tutto nel pensare alle cose, e ci vuole anche una certa forza per sopportare il palcoscenico, anche un’incoscienza. La voce deve essere sganciata completamente dalla gola, e la respirazione deve essere naturale». «Qual è il segreto di Panerai, di una voce intatta che i teatri ancora si contendono? “Bisogna sapersi scegliere i genitori, come diceva Prezzolini, che visse fino a cent’anni. E, se mi si chiede ‘Non vorrà mica cantare fino a quell’età?’, rispondo come Pio IX: ‘Non mettiamo limiti alla divina Provvidenza’”» (Moppi).