25 settembre 2018
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Biografia di Zucchero
Zucchero (Adelmo Fornaciari), nato a Roncocesi (Reggio Emilia) il 25 settembre 1955 (63 anni). Cantautore. Musicista. Oltre 60 milioni di copie vendute. «Il blues è nostalgia, ma per fortuna è malinconia creativa. È un lamento che si può trasformare in preghiera o ballo o sesso» • «Scuola elementare di Roncocesi. La maestra Nada Cosmi fa l’appello: “Adelmo Fornaciari”. “Presente”, risponde un bambino biondo, dolce e introverso. La maestra gli sorride e si rivolge a lui chiamandolo “il mio zuccherino”. Scene di selvaggia presa per il culo di Zuccherino da parte dei compagni. Ma ormai non c’è più niente da fare: il battesimo è stato celebrato» (Antonio D’Orrico) • «Io sono nato nell’Emilia dei comunisti e cresciuto nella terra degli anarchici. Mio nonno Roberto, detto “Cannella”, era un mezzadro praticamente “schiavo” del padrone; mio zio Enzo, detto “Guerra”, era una specie di maoista e aveva una parete di libri. Mio padre mi raccontava di una corriera fantasma che il venerdì notte partiva per Mosca e tornava il lunedì mattina. […] La sera, quando ci mettevamo tutti quanti a tavola, c’era sempre qualcuno che mi diceva: “Adelmo, noi siamo qui tutti insieme, non ci manca un cibo sano. Dai, vai da don Tagliatella, che è in canonica da solo e magari non ha niente da mangiare”. E allora correvo a portargli delle uova, o un po’ di sformato. Lui ringraziava e, sapendo che la musica era la mia passione, mi dava il permesso di suonare l’organo a pedali della chiesa al mattino presto o la sera tardi quando non c’erano i fedeli. In cambio mi trasformò nel suo chierichetto di fiducia». «Mio padre faceva un lavoro duro e pericoloso. Durante la stagionatura del Parmigiano Reggiano, saliva sopra impalcature molto alte per girare le forme, pesanti e tutte unte». «“Un lavoro umile e pericoloso che mollò per trasferirsi con la famiglia a Forte dei Marmi. Voleva aprire una drogheria. Quando arrivò scoprì che non gli avevano concesso la licenza e che il negozio che avrebbe dovuto rilevare non gli sarebbe stato più dato. Passammo sei mesi in una casa non finita, con il cellophane alle finestre, le brandine al centro della stanza e l’accordo con il proprietario dell’esercizio commerciale a fianco per poter usare il suo bagno”. Poi suo padre, il negozio, lo aprì? “Con fatica. Non avevamo mai un soldo. Il mio compito invernale era chiedere al macellaio e al fruttivendolo le cassette di legno per bruciarle e riscaldarci. Nonostante gli stenti, mia madre mi mandava in giro con il collo sempre ben stirato e i vestiti ordinati. Ero perfetto, così inappuntabile ed educato che i miei coetanei mi chiamavano ‘frocetto’”» (Malcom Pagani). «Una volta, mi misero sopra un letto e mi legarono mani e piedi. E cercarono di violentarmi. Non ci riuscirono, ma fu uno shock. […] Al capetto del gruppo mandai una lettera con la firma falsificata di papà, scrivendo che se ci avessero riprovato lui sarebbe andato dalla polizia a denunciarli tutti. Funzionò. Non mi dissero più nulla». «Con quel luogo e con quello sciupio, comunque, non mi sono mai sentito in sintonia. Era tutto finto. Anche se è vero che la musica che veniva da fuori l’ho scoperta nei bar di Pietrasanta. Mentre gli altri giocavano a biliardo, io mi attaccavo al Jukebox e ascoltavo Simon & Garfunkel e Otis Redding». «Io ho iniziato a suonare il sax tenore a 13 anni. Facevamo rhythm & blues e, a seconda delle esigenze, mi è capitato di suonare anche la batteria, le tastiere, la chitarra. A 16 anni facevo parte di un gruppo che si chiamava Pagina 143. Un giorno dovevamo suonare all’Alhambra, un balerone di Sarzana, e il cantante non si presenta: aveva litigato con la morosa. Ma noi avevamo un contratto di un mese, e non potevamo certo saltare la data. Siccome io sapevo tutti i testi a memoria, il più anziano del gruppo mi disse di lasciar perdere il sax e di mettermi a cantare. Da allora non ho smesso più… Quello che ci aveva tirato il pacco si chiamava Pippo, e qualche anno dopo, ripensando a quella cosa, mi è venuta questa canzone che dice “Pippo, che cazzo fai!”» (a Massimo Poggini). «“Lì iniziò il mio peregrinare da un gruppo all’altro. Con Sugar & Candies (1977) incidemmo un 45 giri per la Saar che non comprò nessuno. D’estate suonavamo tutte le sere alla Bussola. Le attrazioni erano Fred Bongusto e Peppino di Capri, noi facevamo i tappabuchi fino alle cinque di mattina. Una consumazione a testa: la seconda, Bernardini [Sergio Bernardini (1925-1993), fondatore e storico proprietario della Bussola – ndr] ce la faceva pagare. Per sbarcare il lunario cominciai a scrivere canzoni per altri: Bongusto, Michele Pecora, Fiordaliso, Stefano Sani. Ma io restavo nell’ombra» (Giuseppe Videtti). Nel 1980, però, Michele Pecora, «con Te ne vai, ottiene un grosso successo estivo, che apre di colpo a Zucchero la strada dell’autore commerciale. Nel 1981 Gianni Ravera, incuriosito dal timbro della sua voce, lo spinge ad affrontare il Festival di Castrocaro come interprete. Zucchero vince, ottiene un contratto con la Polygram e l’anno successivo partecipa al Festival di Sanremo» (Francesco Troiano). «“Nel 1982 ero stato a Sanremo con Una notte che vola via ed ero arrivato penultimo, davanti a Vasco Rossi che aveva portato Vado al massimo. Al concerto di Rosignano Solvay c’era un solo spettatore. L’organizzatore proponeva di rinunciare: ‘Ti do il 50 per cento e sbaracchiamo’. ‘Sono un professionista – replicai –. Suono per una persona o per diecimila allo stesso modo’. E cantai Una notte che vola via, la stessa canzone per un’ora e mezza”. Nel 1983 aveva esordito con il suo primo album. “Alla Polydor erano così contenti del risultato di Un po’ di Zucchero che di farmi realizzare il secondo disco non sembravano avere alcuna intenzione”» (Pagani). «“Un giorno, mentre facevo anticamera per parlare col direttore generale, dalla porta semiaperta lo sentii dire: ‘Mandatelo a casa, tanto questo non andrà da nessuna parte’. Piansi tutta la notte: ero sposato, avevo già una figlia. Devi trovarti un lavoro serio, mi dissi, le 150 mila lire delle serate non bastano più”. Si giocò l´ultima carta con un viaggio a San Francisco. Un amico che vendeva jeans gli passò un biglietto aereo vinto con un concorso della Levi’s. “Lì mi misi alla ricerca di Corrado Rustici, e grazie a lui e Narada Michael Walden, che mi fece registrare gratis nel suo studio, tornai a casa col mio bel nastrino, che conteneva anche Donne. Lo mandai a tutte le case discografiche usando il nome del mio benefattore. Il primo a chiamarmi fu proprio quello che mi aveva fatto fuori. Non aveva capito che ero io”» (Videtti). «Finalmente iniziai a fare dischi come volevo, proprio con le stesse persone per cui fino al giorno prima avrei dovuto smettere. […] Suonai e preparai il disco con una rabbia interiore che venne fuori. “Ora faccio quello che ho sempre voluto fare – mi ripetevo –, e non quello che voi vorreste che facessi”. […] Andò bene». «La sua vita artistica cambia nel 1985 quando presenta a Sanremo il brano Donne, con la Randy Jackson Band. Arriva ottavo, ma la canzone, un reggae che ripercorre una linea di gran moda presso i giovani, colpisce il pubblico. Non è un grande successo commerciale, ma l’album Zucchero & The Randy Jackson Band (Polydor) gli regala la credibilità che gli mancava e costituisce il punto di partenza per una straordinaria escalation personale» (Troiano). In quegli stessi anni, però, «il matrimonio di Zucchero affonda. Un litigio continuo. Dopo uno più furioso del solito, Zucchero sbatte la porta e se ne va nel suo studio. È fuori dalla grazia di Dio. Per calmarsi si mette a scrivere una canzone. Le parole stavolta gli vengono di getto: “Non c’è più rispetto / neanche tra di noi. / Il silenzio è rotto / dagli spari tuoi. / Dimmi / quanti soldi vuoi / per lasciarmi stare”. Una grande canzone. Con Rispetto Zucchero diventa Zucchero» (D’Orrico). «Nel 1987, proprio quando, dopo un sacco di gavetta, il mio disco Blue’s è arrivato primo in classifica, ho vissuto il periodo più brutto della mia vita, una depressione durata tre anni, e forse anche di più. La causa fu innanzitutto la separazione dalla mia prima moglie». È del 1989 Oro incenso & birra, «un capolavoro che ha conquistato anche colleghi stranieri come Eric Clapton e Brian May, il tentativo di fare finalmente il mio blues. Le canzoni scaturivano dalla mia rabbia, dal periodo difficile che stavo attraversando. Ero in crisi con mia moglie: tornando dal mare disperato gridai "Ho bisogno d’amore per Dio, sto male", tre accordi e via. Il pubblico comprese l’importanza di quell’album: un milione e 840 mila copie sono tanta roba anche per quell’epoca. Per me è stato come un raggio di sole». «Miserere nacque […] con una bottiglia, un cane e un appartamento vuoto, una casettina sul mare a Pietrasanta. Stavo veramente male. Ero depresso. […] Una sera mi telefona un amico americano, Rick, proponendomi di andare a mangiare in un ristorante messicano dalle parti del Ciocco. Arriviamo, mangiamo e beviamo tante tequila bum bum che bellissime ragazze con le tette di fuori ci offrono una dopo l’altra. Finiamo a ballare sui tavoli e torniamo in quattro sulla mia macchina, io, il mio amico e due ragazze. Tutti alticci. Nello stereo ho Nessun dorma di Puccini cantato da Pavarotti. Lo metto a massimo volume, copro la distanza a tutta velocità e rientriamo a Pietrasanta. Il mio amico corre a scopare in una stanza, io cado seminudo sul tappeto, e la mattina dopo, quando la governante si fa strada tra le macerie urlandomi “Tu sei un porco”, ho solo molto mal di testa e non mi ricordo più niente. Miserere la scrissi quel giorno. In quel nulla. E sarebbe anche rimasta in un cassetto se, dopo aver ascoltato il materiale, i discografici non mi avessero chiesto se avessi ancora qualcosa nel cassetto. Insistettero. La tirai fuori e li avvertii: “Questa non va bene, non c’entra niente”. “Tu sei matto, questo è un capolavoro”. “Va bene – rispondo –, ma la parte tenorile deve farla Pavarotti”». «Loro lo contattarono, e mi dissero che non voleva, Allora lo chiamai io: “Ciao, Baciccio – mi rispose lui –. Perché non viene a cena e ne parliamo?”. Si addormentò pure, mentre parlavamo dopo mangiato, ma poi sentì il pezzo e accettò. Ne sono nati quindici anni di collaborazione magnifici, in cui abbiamo raccolto soldi per beneficenza che hanno aiutato bambini in tutto il mondo [con i concerti «Pavarotti & Friends» – ndr]» (a Paolo Mastrolilli). Nel frattempo era iniziata una lunga serie di collaborazioni con artisti internazionali, a cominciare da Miles Davis. «Miles cadde dal cielo. Ero alle Maldive con mia moglie, ci eravamo appena separati, cercavamo di rimettere insieme i pezzi. Mimmo D’Alessandro, che era il promoter di Davis in Italia, era in macchina col trombettista mentre andava il mio disco. Quando arrivò Dune mosse, Miles borbottò: "Chi è questo? Voglio suonare con lui". Mimmo mi chiamò alle quattro del mattino. Manco a dirlo, interruppi la vacanza, e il matrimonio andò definitivamente a rotoli». «Poi c’è stato Clapton, il gentiluomo, che lo volle in tour con lui, Sting e tutti gli altri. "Ma quello che mi ha sorpreso di più sul piano umano è Bono. Dopo che ha scritto un testo per me, e soprattutto dopo aver ascoltato come l’ho cantato, mi ha riempito di messaggi d’amore". Fu da quel momento che la favola divenne qualcosa di più: uno strano connubio tra provincia e mondo, artigianato e show business, sapienza da cantautore e blues. Tra Reggio Emilia e il West stava nascendo la fabbrica di musica che avrebbe esportato il suo prodotto in tutto il pianeta» (Gino Castaldo). Molto più prosaica la versione dell’ex manager di Zucchero, Michele Torpedine: «Zucchero finge di non saperlo e lega i grandi nomi con i quali ha collaborato alla filantropia artistica. Ma dietro c’erano i soldi. All’epoca Davis volle cento milioni di lire per tre minuti. Senza i soldi non ci sarebbe stato Davis o Ray Charles, come d’altronde nessun altro, è pacifico». In ogni caso, negli anni Zucchero ha pubblicato una serie di album di grande successo (Spirito DiVino nel 1995, Bluesugar nel 1998, Shake nel 2001, Fly nel 2006, Chocabeck nel 2010, La sesión cubana nel 2012, Black Cat nel 2016), ricchi di duetti prestigiosi spesso replicati dal vivo negli altrettanto fortunati tour internazionali. A fine luglio 2018 ha concluso il «Wanted – Un’altra storia Tour», dedicato alla promozione della raccolta Wanted (The Best Collection), celebrativa dei suoi 35 anni di carriera. «Il tour di Zucchero Fornaciari chiude con 166 concerti da 3 ore di canzoni in 5 continenti, 48 nazioni e 136 città. Sugar si riconferma uno degli artisti italiani più internazionali dopo quasi 2 anni in giro per il mondo. […] Tournée mondiale che ha visto il cantautore protagonista in prestigiose location teatrali – come la Royal Albert Hall di Londra, l’Olympia di Parigi, l’Opera House di Sydney e il Coliseo di Buenos Aires – e nei più importanti festival europei, tra cui il British Summer Time di Londra ad Hyde Park e il Cornbury Festival» (Francesco Carrubba) • Due figlie, Irene (cantante) e Alice (stilista), dalla prima moglie, Angela Figliè, suo grande amore di gioventù e ancor oggi musa ispiratrice di alcuni suoi brani; un figlio, Adelmo Blue, dalla seconda e attuale consorte, l’italo-svizzera Francesca Mozer, sua ex assistente. Con moglie e figlio Zucchero vive attualmente a Pontremoli (Massa-Carrara), in una fattoria, denominata Lunisiana Soul, («Come scuola […] io sono lunisiano: mezzo Lunigiana, mezzo Louisiana»), piena di animali, dei quali il cantante è da sempre appassionato, al punto che da ragazzo studiò Veterinaria, sostenendo 39 esami su 50 («Ho mollato perché gli studi non si conciliavano con la musica») • «Non sono mai stato fedele, se non fedele di testa. […] Comunque, sono sincero. Alle mie donne l’ho sempre detto: se prendi me, sai che prendi il pacchetto, sai che non c’è fedeltà ma che torno sempre a casa». «In realtà io sono un timido. Nella seduzione sono una schiappa. Vado direttamente al dunque, ma mi rendo conto che non è il modo migliore per conquistare una donna. Ho visto ragazze stupende che mi hanno snobbato per andare con dei “catamarani” di uomini. Perché loro le hanno convinte corteggiandole allo sfinimento!» • Collezionista di auto d’epoca («con la loro forma bella stondata, i colori pastello, quell’aria senza tempo…») e, soprattutto, di cappelli, al punto di possederne oltre quattrocento. «A portarli era mio nonno, figura carismatica, sempre in giro con lobbia e tabarro. Più avanti ho notato che molti artisti di colore americani, soprattutto del Sud, portavano copricapo importanti, e ho cominciato a usarli, forse per darmi un tono… Adesso non vado più in giro senza, e li cambio spesso» • «A volte sono scorretto, ma sempre genuino: a me piace “spiacere”» • «Ha una voce sexy come un whisky invecchiato in una botte di quercia. Ha i capelli da leone e un’anima da poeta» (Bono) • «Non so bene perché, ma il blues e il soul mi hanno subito preso. Ai miei tempi in Italia andavano Gianni Morandi e Rita Pavone, che cantavano canzoni romantiche. Niente di male, ma queste storie di persone che non sapevano come vivere una senza l’altra mi annoiavano. Invece tipi come Ray Charles e Otis Redding cantavano roba vera. Pensai di imitarli, aggiungendo a quella musica un po’ di spirito mediterraneo». «La prima volta che atterrai a New Orleans ebbi l’impressione di essere a casa mia. Ovviamente ci sono tante diversità, ma l’umidità, le zanzare e gli acquitrini sono uguali ai nostri. Altre similitudini stanno nello spirito della gente, e perfino in certi piatti che si cucinano. […] Il Po è il mio Mississippi». «Rivendica la sua originalità padana: “Io non faccio blues: io attingo dal blues, come dalla musica afro, come, e sempre di più, dal gospel. Più invecchio e più mi avvicino al blues dei padri”» (Angela Calvini). «Devi fare della bottega per essere un bravo cantante. Io inizio alle undici del mattino nel mio studio: prendo appunti, mi arrovello, provo. Non ho mai accettato di mettere un singolo in un album tanto per riempirlo. Per me un disco è come un quadro: ogni parte deve avere il suo peso. Sono un perfezionista». «La presunzione, o la sfida, sarebbe quella di fare il più bell’album della mia vita. Chiudere così. […] Per adesso non c’è l’intenzione di lasciare, ma quando succederà […] vorrei farlo convinto di aver prodotto la miglior cosa della mia carriera. Quel che conta è chiudere a piombo, in piedi». «Amo ancora le piccole cose della vita, le giornate di primavera, quando nel mio parco ci sono gli alberi in fiore. Per ora sono ateo, e perciò quando farò centouno – da noi morire si dice così – queste cose non le vedrò più. Sarà un peccato. Davvero, a volte vedo un vitellino appena nato, o le paperine che vanno dietro alla mamma, e mi chiedo se è stata la natura o Dio. […] A me l’idea di far centouno mi fa girare i coglioni, perché questa vita non mi basta» (a Ferdinando Cotugno).