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 2018  settembre 18 Martedì calendario

Bestie e bestiari quando ancora non erano social

«Con l’irragionevolezza dell’animale si dimostra la dignità dell’uomo». L’affermazione non si trova certo in alcuno dei Bestiari tardoantichi e medievali riuniti da Francesco Zambon nella più ampia raccolta esistente (sono più di trenta, con testo originale a fronte della versione italiana). Al contrario: la citazione proviene da “Uomo e animale”, uno degli ultimi “appunti e schizzi” che Max Horkheimer e Theodor Adorno hanno allegato alla loro Dialettica dell’illuminismo. Poche pagine dopo, nel capitoletto finale sulla “genesi della stupidità”, i due severi pensatori raccoglievano una chiocciola dalle pagine goethiane della notte di Valpurga e ne facevano l’emblema dell’intelligenza frustrata: la sua «antenna dalla vista tastante», quando trova un ambiente ostile, si ritrae nel guscio, fino a non uscire più. La chiosa finale chiarisce la similitudine: «Come le specie animali, anche i livelli intellettuali entro il genere umano, e i punti ciechi di uno stesso individuo, segnano le stazioni a cui la speranza si è arrestata». Non occorre, insomma, essere tardo-antichi, né medievali e neppure cristiani per inclinare a una qualche sorta di “moralizzazione”, cioè interpretazione allegorica a scopo più o meno edificante. È così che, come nel sottotitolo di Zambon, si arriva a parlare di una «zoologia sacra» ma è anche così che procedono Horkheimer e Adorno.
Esattamente come nel Fisiologo (il testo del II secolo che apre la raccolta di Bompiani), prima viene descritta la “natura” di un animale e poi se ne evoca il possibile significato allegorico. Gli animali sono figure del mondo: oggetti o anche elementi costitutivi del nostro discorso. Succede anche nei nostri capienti album fotografici sui social, in cui parliamo dei nostri animali ma, esibendone le foto, diciamo anche qualcos’altro (e questa volta, su di noi).
Come Zambon spiega nel suo saggio introduttivo ( Il bestiario: un Paradiso del nuovo Adamo), è Gesù che per primo impiega animali come chiavi interpretative fra Antico e Nuovo Testamento: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che innalzato sia il Figlio dell’uomo» (Giovanni, 3, 14). Adamo ha dato il nome; tramite Gesù se ne cercherà il significato, quello vero, quello sacro. I bestiari aiutavano così l’esegesi biblica: «La Scrittura» decreta il Fisiologo «non ha detto nulla degli uccelli e delle fiere senza una ragione». La massima chiude il fondamentale paragrafo dedicato alla pantera cui secoli dopo, Scoto Eriugena attribuirà l’etimo pan ther, «assolutamente bestiale». Secondo parametri di molto posteriori il passaggio da etologia a teologia o è enigmistico o sfiora l’accostamento blasfemo (soprattutto quando Dionigi Areopagita ricorda che in un passo biblico «Dio si è attribuito la forma di un verme»): ma in realtà – e in accordo con i canoni della teologia negativa – è proprio dai simboli più lontani dai suoi consueti attributi che si perviene a essere meglio consapevoli dell’insondabile grandezza di Dio. E così il Fisiologo nel II secolo leggeva il profeta Osea: «Sono diventato come una pantera per Efraim» e spiegava: la pantera è amica di tutti gli animali ma odia il drago, è bella e mite. Mangia, dorme, si sveglia dopo tre giorni, ruggisce con voce profumata e chiama a sé gli altri animali: «Così anche il Signore nostro Gesù Cristo risuscitato dai morti il terzo giorno è diventato per noi ogni profumo». Un bestiario oggi può apparire come un ricettacolo di elucubrazioni fantasiose almeno quanto pie, e anche a questo si deve l’indubbia curiosità e passione che scaturisce persino dalla meno attrezzata delle sue letture. Ma il suo fascino si moltiplica quando si considera che le opere di questo genere avevano una funzione di codice e la svolgevano con un rigore certo non scevro da una dose di quella che oggi chiamiamo arguzia. Dramma del formicaleone: «È perito per mancanza di nutrimento», dice il Libro di Giobbe. ll Fisiologo descrive, fantasticamente: «Ha gli arti anteriori di un leone e quelli posteriori di formica». Segue spiegazione: «Suo padre è carnivoro mentre sua madre è erbivora». Nessuna domanda sulle modalità della generazione ma solo un triste appunto sul destino dell’ibrido nascituro: «(…) Non può dunque mangiare carne a causa della natura della madre né erba a causa della natura del padre».
Come moralizzare? Semplice: «Così avviene anche in ogni uomo indeciso, instabile in tutte le sue azioni. Non è bello dire “sì no” e “no sì”, ma “sì sì e no no”, come ha detto Signore nostro Gesù Cristo».
I bestiari non solo attribuivano comportamenti immaginari ad animali che esistevano, ma includevano anche bestie immaginarie. Su mitezza e profumazione non scommetteremmo, ma la pantera certo esiste; solo la fantasia ha invece saputo partorire altre belve.
Sulla prima via, all’inizio del VI secolo, Isidoro di Siviglia traeva dal nome dell’animale indicazioni etologiche, con etimologia davvero “selvaggia": l’"orso” prende il nome dal fatto che la madre partorisce un mucchio di carne a cui dà forma leccandolo, quindi «con la propria bocca» ( ore suo). Sulla seconda via, un altro autore di poco posteriore (probabilmente Aldelmo di Malmesbury) traeva dalle fonti classiche esseri portentosi, per il suo Liber monstrorum, come l’Uomo dal doppio sesso e i Cani azzurrini «che vivrebbero nel mar Tirreno e che dei pesci avrebbero la parte inferiore del corpo». Vario è il mondo, a cui l’uomo aggiunge la varietà del suo sguardo e della sua inventiva. Ciò rende formidabile, oltre che piacevolissima, la lettura di queste collezioni, devote come sono al Creatore ma anche alla fantasia.
Tanto più formidabile, in un’epoca in cui agli animali si assegnano altri e nuovi ruoli e a volte anche altri nomi. «Bestia», per esempio, oggi si dice solo per metafora e mai più per intendere esemplari zoologici.