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 2018  settembre 18 Martedì calendario

Vittorio Feltri, memorie di un cronista

Vittorio Feltri ha intitolato Il borghese la sua autobiografia, cui ha voluto aggiungere La mia vita e i miei incontri da cronista spettinato . Un sottotitolo che affermando contraddice e fa da pendant perfetto con il suo viso da eterno ragazzo, lui classe 1943 (25 giugno), il caschetto di capelli sempre in ordine, la giacca di ottimo taglio, la cravatta sulla camicia a scacchi. Eppure questo suo libro Feltri avrebbe potuto chiamarlo Il provinciale , come l’autobiografia di un altro grande giornalista, Giorgio Bocca. Al pari di Bocca Feltri ha coraggio, passione e una prosa chiara, diretta e talvolta scanzonata, che concorrono a inserire questo racconto tra i classici del genere.
Qualcuno storcerà il naso di fronte a tale paragone. Personalità troppo diverse, addirittura agli antipodi, eppure leggere per credere. Tanto più che è lo stesso Feltri a rimettere le cose a posto nelle pagine dedicate al fuoriclasse di Cuneo. Abitavano a Milano nella stessa via, in zona Magenta. Si salutavano, scambiavano opinioni, si stimavano. Feltri intervistò Bocca per «Prima Comunicazione» e ne uscì un articolo molto gustoso. C’era quasi amicizia, poi la rottura. Quando si trattò di assegnare il premio «è giornalismo» a Vittorio Feltri, Indro Montanelli ed Enzo Biagi diedero il loro assenso, ma Bocca si oppose: «Se lo merita, ma è un fascista». Feltri, che da ragazzo era stato socialista, ma mai ha simpatizzato con la destra neofascista, restituisce pan per focaccia: «Bocca era fascista nel temperamento, quantunque non più nei principi». Eppure quanta ammirazione per quella prosa torrentizia, per quell’onestà di giudizio, che ne facevano uno dei giornalisti che eccelleva nell’analisi politica, a differenza sia di Indro Montanelli, «superficiale e irridente», sia di Enzo Biagi, «una sorta di orecchiante».
Il borghese di Vittorio Feltri (Mondadori, pagine 100, e 17) è la confessione in pubblico di un ragazzo di Bergamo rimasto orfano prestissimo, che si salva con la passione per la lettura e trova i suoi «genitori putativi», cui è dedicato il libro, in monsignor Angelo Meli, che gli tenne le prime lezioni private di storia, letteratura (e vita) e nella «zia Tina», che lo protesse e gli insegnò a leggere e scrivere a quattro anni.
Fece tanti mestieri Vittorio Feltri, prima di militare precocemente nel giornalismo: ragazzo che consegnava il latte, commesso, vetrinista, impiegato della Provincia di Bergamo… Doveva aiutare la mamma vedova a mantenere la famiglia, ma si annoiava e trovò l’energia per collaborare con l’«Eco di Bergamo» e poi con «La Notte» di Nino Nutrizio, il geniale direttore che lo assunse accogliendolo con il poco invitante «ho il sospetto che lei sia un cretino».
Ne Il borghese Feltri mette il suo cuore a nudo, raccontando di come rimase vedovo a 21 anni della bella e sfortunata Maria Luisa, con due gemelle cui badare, Laura e Saba, del matrimonio con Enoe, da cui ha avuto Mattia, pure lui giornalista capace, e Fiorenza. E ci trascina nella irresistibile ascesa nel giornalismo.
Dalla «Notte» passò al «Corriere d’informazione» su raccomandazione dello stesso burbero Nutrizio. E in via Solferino, accolto all’ingresso da Gian Luigi Paracchini, incontrò un altro maestro, Gino Palumbo. Gli anni al «Corinf», con Ferruccio de Bortoli, Gian Antonio Stella, Ettore Botti, Mario Perazzi, Massimo Donelli e poi quelli al «Corriere della Sera», nella redazione politica dello stanzone albertiniano, dove fu chiamato da Walter Tobagi, sono rimasti nel cuore a Feltri. Lui non lo dice, ma con il «Corrierone» si sente un legame mai interrotto. Anche se i successi importanti, i soldi veri, le direzioni, la creazione di giornali, sono venuti dopo: il rilancio dell’«Europeo» e dell’«Indipendente», la successione a Indro Montanelli a «il Giornale», la creazione di «Libero».
Le pagine appassionate di questa autobiografia si accompagnano ai ritratti di colleghi, maestri e politici, cui l’autore è particolarmente legato. C’è un irriverente ed esilarante ritratto di Eugenio Montale, il poeta Nobel della letteratura che gorgheggiava nei corridoi di via Solferino, c’è l’incontro e l’amicizia con Oriana Fallaci, che terrorizzava l’intera redazione a cominciare da un mite e preparato caporedattore che lei chiamava «cosino», quando gli affidava i suoi pezzi meravigliosi e chilometrici. C’è il rapporto con Enzo Biagi, un maestro e un amico, con Indro Montanelli, un fuoriclasse e un signore che ebbe la sensibilità di telefonare a Feltri per congratularsi per il primo editoriale da direttore sul suo «Giornale». C’è il rimpianto per Gaetano Afeltra, che gli insegnò la ricetta delle quattro «S» per avere successo con i giornali: «Soldi, sesso, salute e sangue. E una spruzzata di m...».
E poi ci sono i ritratti dei politici conosciuti da vicino: Amintore Fanfani, Ciriaco De Mita, Giulio Andreotti e Bettino Craxi.
Meritano in particolare le pagine su Craxi e Andreotti, raffigurati nel momento della caduta. Quando Feltri si mise con generosità dalla parte dei perdenti.