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 2018  settembre 16 Domenica calendario

Historiae è un bellissimo titolo per un libro di poesia di questi giorni. Sembrando ironico, esagerato o perfino astratto, illumina il nesso profondo, riconducibile almeno ai primordi greci della nostra letteratura, che ravvicina canto e memoria; e riafferma, se non addirittura reclama, la vocazione civile della stessa poesia lirica, cui siamo abituati ad associare da anni il nome dell’autrice, Antonella Anedda

Historiae è un bellissimo titolo per un libro di poesia di questi giorni. Sembrando ironico, esagerato o perfino astratto, illumina il nesso profondo, riconducibile almeno ai primordi greci della nostra letteratura, che ravvicina canto e memoria; e riafferma, se non addirittura reclama, la vocazione civile della stessa poesia lirica, cui siamo abituati ad associare da anni il nome dell’autrice, Antonella Anedda. La forma latina, dal canto suo, colloca il libro letteralmente sotto la giurisdizione degli storici professionisti. Viene subito in mente l’imperiale Tacito, e Tacito è citato in due o tre punti, anche per l’altra sua opera maggiore, gli Annales. In quel titolo, dunque, non solo risultano abolite le più scontate e più consolidate divisioni di genere (l’autorizzazione ad abolire, a ogni modo, è presto concessa da autorità come Leopardi e Baudelaire), ma si decide anche un allargamento di pertinenza e di responsabilità. Storici, insomma, siamo tutti; la composizione in versi non libera né chi la legge né chi la fa da una simile missione, anzi: la pretende e, in buona sostanza, sarà meglio che la si assuma come la miglior via percorribile. 
Sfruttando la desinenza plurale, Anedda per storia intende più dimensioni. Abbiamo, per cominciare, l’autobiografia, per usare un termine che non si sa ancora bene come sostituire (e che imbarazzerà, suppongo, anche lei), o perfino il diario, come suggerisce il presente indicativo alla prima persona di cui è punteggiato il testo: dove i fatti sono l’amore, l’attaccamento alla Sardegna dei familiari, alla stessa lingua sarda, la morte della madre, il pensiero del decadimento fisico, la malattia. E abbiamo poi le vicende degli altri, i migranti che annegano a breve distanza dalle nostre coste, le guerre, la cronaca di una qualunque giornata, i ricordi di epoche arcaiche. 
In qualunque forma appaia, la storia per Anedda è fine. Si tratta di una fine che non è ancora conclusa; una fine che sta accadendo e che, da una parte, si dà per definitiva in certe epifanie di estinzione (stupende), dall’altra, lascia qualche momento di intervallo per fantasie di resurrezione, non meno disintegranti, ma pur sempre piene di vitalità, come questa, dove alla memoria dell’autrice, che è sempre in cerca di consonanze, torna il fantasma di un primissimo Montale: «Samos, spolpami, sputami sulla sabbia / con un fondo di vetro. / Puliscimi la mia scorza, risuscita soltanto ciò che è vivo. / Scomponimi di atomi, lasciami attraversare dalle luci». («Quaderno»). Tra questi due poli si intesse il discorso di Historiae, in un’aria di vigilia, di rinuncia alla speranza, di appello alle sole forze della natura. Il tono è quello della più pura e semplice constatazione: si muore. Si muore vivendo. Ecco perché Anedda può scrivere un endecasillabo come «risuscita soltanto ciò che è vivo», che accoglie in un rinnovante abbraccio l’ombra dell’autore degli Ossi. E quanto più lucidamente si pronuncia quella verità – che si muore – tanto più radicato e fossile diventa il pensiero dell’origine: origine che, non mutando mai, diventa sempre più sé stessa nel crescere della rovina generale. La Sardegna che compare nella prima parte del libro sta proprio a significare una soglia, anche nell’economia del testo, di perfetta integrità. 
Anedda ancora una volta ricorre alla lingua sarda, e stavolta con l’evidente intenzione di farne un suo latino; di farne l’etimologia di quello che le necessità della sua storia la portano a esprimere in italiano (e chi ha la buona volontà di leggere il sardo rivolgendo il pensiero alla lingua di Roma antica si accorgerà che l’intenzione è assai più fondata sulla realtà delle forme che non su un’ipotesi di metafora). La volontà di latino trapela anche nella coscienza dell’italiano: a un certo punto, a proposito della parola «macchina», si legge: «Era bello quel nome: macchina, ancor meglio / quando senza la c ritorna machina» («Macchina»). Parlavo di un «tra» poco sopra – quell’oscillare tra anticipazione della catastrofe e accarezzamento di una salvezza. Historiae è anche un altro «tra»; è traduzione: passaggio tra l’origine e la fine, tra la lingua dell’isola e la lingua dell’esilio, come suggerisce in modo esplicito anche un componimento bilingue, e come le varie autotraduzioni incluse – una addirittura interlineare – stanno lì a rappresentare.
Un aggettivo ricorre: «grigio». Grigio è lo schermo del computer, grigio è il cielo, grigio è uno spavento… Grigio è, aggiungerei, questo stato di «tra-ità», se mi si passa il neologismo, questo miscuglio degli opposti: il procedere dell’inizio verso la fine e, insieme, l’esitazione della fine, il tardare del buio ultimo. E grigio è il dramma storico che di momento in momento, a bassa voce, va rivelando le sue simmetrie e i suoi fondamenti complementari, in una dissimulazione sottile di tutti gli assoluti, compresa la poesia. Né vita né morte, ma i vivi e i morti insieme, senza che ci si escluda a vicenda. Né prosa né verso, ma i due intrecciati in un cantabile che sa e non sa di tradizione, che usa le rime e i metri regolari (li si individui nelle citazioni che ho riportato sopra), ma non li esibisce, anzi, vuole confonderli con il parlato. E ancora: né io né non-io, ma un impegno a usare la prima persona come possibilità tra le possibilità, come soggettività transeunte, reale, sì, ma innecessaria tutto sommato. 
Historiae è un’opera armoniosa e complessa, forse la più alta di Anedda, capace di mostrare in una frazione di istante una verità e già di celarla, attirando con altri sussurri. Mi fa pensare a quei forzieri orientali dai molti cassetti incastrati, dove al più interno si arriva solo dopo averne aperti alcuni secondo un ordine preordinato. Così qui si ha una gran desiderio di continuare ad aprire, di tornare indietro, di frugare, inseguendo un segreto che chissà dove l’artista ha depositato, e nella ricerca non si smette un momento di ammirare la perfezione dello scatto, la scorrevolezza delle parti, il nitore del disegno, e quel che ogni incavo contiene: linguaggi,