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 2018  settembre 16 Domenica calendario

Con gli dei del mare c’è Beckett

I cani si mettono ad abbaiare tutti insiemeSuccede a metà del mese di giugno, nel pieno dell’odissea della nave Aquarius. Già suona inaccettabile la politica dei porti chiusi annunciata dal nostro ministro degli Interni («uomo di terra, che non conosce il mare», come osservato da Andrea Camilleri), che introduce il ricatto sulla pelle dei migranti nella trattativa con l’Unione Europea per il loro ricollocamento; già suona inaccettabile la sostanza di quell’ordine, sbraitato via Twitter mentre la nave che li ha salvati dall’annegamento vaga per il Mediterraneo alla ricerca di un porto dove sbarcarli: equivale, quell’ordine, allo smantellamento del concetto stesso di soccorso in mare, regolato dal Diritto marittimo internazionale con norme precise e perentorie, oltre che da una tradizione millenaria.
Già è inaccettabile quello. Ma a scatenare i latrati sono le parole – due, per la precisione – che potevano benissimo essere evitate senza che il senso di quell’infame decisione cambiasse di una virgola, e che tuttavia vengono pronunciate: la parola pacchia e la parola crociera. È allora, il 15 giugno, che i cani si mettono ad abbaiare tutti insieme, anche se io ancora non lo so. Lì per lì mi metto ad abbaiare io, all’istante, come il cane di Pavlov che esegue l’azione associata allo stimolo emesso dall’addestratore. Lo stesso capita a mia moglie, e per due o tre giorni ci abbaiamo in faccia tutto lo sdegno cui quelle parole – Pacchia! Crociera! – nel nostro addestramento sono state associate. È una perturbazione interna violenta e travolgente, che poche altre volte nella mia vita mi è capitato di affrontare, e che non riesco a governare. Non riesco più a pensare ad altro, non riesco a parlare d’altro, non riesco a dormire se non sognando un mare di piombo fuso dal quale spuntano orde di migranti disperati che mi afferrano e mi tirano giù. Non riesco a smettere di abbaiare – Bau! Bau! Bau! – ma abbaiare è inutile. Ricomincio a fumare, e questo oltre che inutile è dannoso. Appesto d’indignazione ogni singolo istante che chiunque passi in mia compagnia.
Va avanti così per qualche giorno, finché capisco cosa devo fare: smettere di abbaiare e metterci il corpo – laggiù, nel buco del lavandino, dove il mare inghiotte veramente i migranti disperati. Poiché tuttavia il mio corpo di vecchio cane non mi pare abbastanza, abbaio per quella che m’illudo sia l’ultima volta, pubblicando sul «Corriere della Sera» una lettera aperta nella quale auspico che altri cani migliori di me, più giovani e meglio allenati, più conosciuti o più amati o più autorevoli o più ascoltati di me, facciano lo stesso, e ci mettano il corpo insieme a me. Nei giorni successivi, mentre su Twitter l’uomo che non conosce il mare mi augura buon viaggio con un emoticon, vengo letteralmente sommerso di email, sms, messaggi whatsapp, telefonate, commenti via Twitter – di solidarietà ma anche di odio, d’incoraggiamento ma anche di minaccia, come mai mi è successo in tutta la mia vita. E lì capisco. Non è successo solo a me e a mia moglie. I cani si sono messi ad abbaiare tutti insieme.
Il Principe della PandolfinaÈ mirabilmente raccontata da Roberto Alajmo nel suo Repertorio dei pazzi della città di Palermo: la storia del Principe Monroy della Pandolfina e della sua missione in Terra Santa. Preoccupato per la malattia che affligge sua moglie, il Principe fa un voto, impegnandosi, se la moglie fosse guarita, a viaggiare fino a Gerusalemme per liberare il Santo Sepolcro. Una crociata, in pratica. Solo che si è all’inizio del XX secolo e, quando la moglie guarisce, la lettera con la quale il Principe annuncia al Papa il proprio nobile intento, chiedendo la sua benedizione e il suo supporto logistico, non ottiene risposta. Ma poiché un voto è un voto, il Principe s’industria a trovare il modo di onorarlo ugualmente. Opta per un compromesso: non potendo recarsi in Terra Santa fisicamente, lo avrebbe fatto in via metaforica. Misura il perimetro della propria residenza e decide di percorrerlo finché non abbia coperto l’intera distanza che separa Palermo da Gerusalemme. Prende con sé il suo servo Felicietto e parte. Ogni giorno cammina intorno alla propria casa fino allo sfinimento, riportando alla sera sulla mappa la distanza percorsa e mostrando a Felicietto dove sono arrivati (Calabria, Puglia, Grecia, Turchia...). I familiari lo assecondano, facendogli trovare lungo il cammino teglie di pasta al forno, arancine, panelle, che il principe divide con Felicietto dopo aver ringraziato la Provvidenza. Gira intorno alla sua casa per più di un anno, strenuamente, con ogni clima, finché un giorno comunica a Felicietto che sono arrivati in Terra Santa. Nel parco della villa inscena una dura battaglia con gli infedeli. La battaglia viene vinta, il Santo Sepolcro viene liberato – ed è così che il principe della Pandolfina riesce a onorare il sacro voto che ha fatto.
CorpiPassano i giorni, passano le settimane, e il mio corpo rimane lontano da quel braccio di mare – in vacanza addirittura. La mia testa però è già partita, e io continuo ad abbaiare. Ho preso contatti con le Ong, ho sgombrato l’intera estate da ogni impegno e mi sono preparato a partire alla prima occasione – ma l’occasione non arriva. Continuo a tenermi in contatto con Roberto Saviano, destinatario della mia lettera sul «Corriere»; comincio a servirmi dei consigli di Luigi Manconi. Nel frattempo, allo scopo di non mandare dispersa l’energia sprigionatasi all’indomani della pubblicazione di quella lettera, formo un gruppo su Signal con tutte le persone che hanno manifestato la mia stessa intenzione di «metterci il corpo», cioè di imbarcarsi insieme a me per testimoniare su quello che accade veramente laggiù, o di mettersi a disposizione per manifestazioni di supporto. La lista è lunga: Roberto Alajmo (a proposito del Principe della Pandolfina), Elena Stancanelli, Luca Doninelli, Alessandro Bergonzoni, Riccardo Rodolfi, Marco Cassini, Franco Cordelli, Antonio Pennacchi, Michela Murgia, Simone Lenzi, Massimo Coppola, Paolo Virzì, Gipi, Jasmin Behrabadi (nipote del comandante Salvatore Todaro, maledizione, uno degli eroi della Marina Militare Italiana), Stefano Eco, Gabriele Muccino, Antonio Leotti, Teresa Ciabatti, Silvia Giagnoni, Francesca d’Aloja, Giuseppe Genna, Edoardo De Angelis, Hamid Ziarati, Chiara Valerio – e molti altri che durante l’estate saranno impegnati ma hanno offerto la propria disponibilità per i mesi successivi.
Mi viene spontaneo chiamare il gruppo Corpi. Continuiamo ad abbaiare ogni giorno, in quelle settimane, sfogando la nostra indignazione tanto in privato, tra noi, quanto in pubblico, alcuni, su giornali e social media – ma sono parole, per l’appunto, e abbiamo deciso che le parole non bastano più. Tutto cambierà non appena partirò, è vero, e dopo di me cominceranno a partire anche gli altri: però, come ho detto, i giorni passano e io sono sempre lì. Del resto, in mare è rimasta una sola Ong, le altre le hanno tutte bloccate con ogni possibile pretesto, e trovare un posto a bordo è complicato. Finalmente, a fine luglio, vengo convocato per l’imbarco su Astral, il due alberi di supporto che naviga insieme a Open Arms, e questo proprio mentre su quell’imbarcazione Marc Gasol sta partecipando, col suo corpo immenso, alla missione numero 47: quella della donna e del bambino trovati morti accanto al gommone squarciato, quella nella quale viene salvata Josefa.
Dopo l’approdo, però (a Barcellona, nonostante stavolta l’uomo che non conosce il mare abbia dato il permesso di sbarcare quella povera donna in Italia, dove frattanto i suoi tonton macoutes hanno già cominciato a farne carne da macello con le fake news sullo smalto alle unghie), arriva la doccia fredda: Astral si ferma. Rimane soltanto Open Arms, appena ripartita per completare la missione, perciò la mia partenza viene rimandata. Frattanto però la mia testa è arrivata a destinazione e vaga nel mar libico, anche grazie a un micidiale strumento che eleva a potenza la mia ossessione: un’app dal costo di 5,49 euro chiamata «Marine Traffic», che permette di vedere in tempo reale la posizione di tutte le navi del mondo.
Con la sacca pronta, i vaccini fatti e il corpo che porta i bambini a fare il bagno, passo le mie giornate a controllare i ghirigori di Open Arms nelle acque internazionali davanti a Tripoli, congetturando, immaginando, facendo previsioni; come il Principe della Pandolfina, alla sera aggiorno i Corpi sulle mie perlustrazioni, e pazientemente, come con lui facevano i suoi familiari, i Corpi mi assecondano, commentando, incoraggiando e mettendo a punto il calendario degli imbarchi successivi. L’uomo che non conosce il mare nel frattempo continua a sbraitare («taxi del mare!», «traffico di schiavi!»), l’abbaio globale si rinforza e tutti capiamo che si tratta di una miserabile strategia elettorale (le elezioni sono alle porte, mancano solo 4 anni e 8 mesi) per distrarre il Paese dalla pochezza sua e di tutto il suo governo: però dalla Libia i barconi continuano a partire, e a naufragare, i migranti continuano a morire, e quella che lui crede una manovra diversiva è invece l’indicazione illuminata su dove bisogna guardare. E andare, soprattutto.
Fermi tuttiNon sto nemmeno a elencare la lista delle violazioni del Diritto marittimo internazionale che si succedono in quei giorni. Voglio invece ricordare l’unico evento esemplare che si verifica: l’approdo nel porto di Messina del pattugliatore irlandese «Samuel Beckett», che alla zitta ha raccolto 106 naufraghi nella zona Sar (search and rescue, ricerca e soccorso) italiana e, calata la passerella, li sbarca in Italia tutti quanti prima ancora che l’uomo che non conosce il mare possa farsi il selfie. Che si chiami «Samuel Beckett», quella nave, cioè che sia intitolata al mio dio, lo prendo come un segno: «Così si fa», penso, come sempre quando c’è di mezzo qualcosa che ha fatto Beckett. In questo tempo di cupo disonore, dunque, onore all’Irlanda, che intitola le navi militari ai suoi poeti. Riparte anche Aquarius, da Marsiglia, dopo uno stop di un mese per «ispezioni». Open Arms aspetterà il suo arrivo nella zona Sar prima di rientrare con gli 87 naufraghi salvati nel frattempo. Io continuo a seguire le operazioni su «Marine Traffic», faccio calcoli, pattuglio, elucubro, abbaio, ma stavolta sento che il mio giorno si sta avvicinando.
Infatti, quando Aquarius arriva nel mare maledetto e Open Arms punta la prua verso nord, mi arriva la convocazione per la Missione 48: partenza prevista da Barcellona lunedì 13 agosto. Nel gruppo, i Corpi esultano: è passato più di un mese e finalmente smetteremo di abbaiare a vuoto. Decidiamo di uscire allo scoperto, prepariamo un comunicato da divulgare quando io sarò in mare, serriamo le fila della lista delle partenze successive, e io riesco a rilassarmi un po’. Ora che sto per lasciarli riesco addirittura a godermi i miei figli, eccezionalmente riuniti tutti e cinque per qualche giorno di vacanza insieme. Ma quando si tratta di individuare il place of safety dove sbarcare i naufraghi («il più vicino», recita il Diritto marittimo internazionale), l’uomo che non conosce il mare riparte con la sua tiritera, Malta fa lo stesso, e Open Arms deve rivolgersi al governo spagnolo; il quale governo spagnolo, dopo un significativo silenzio, le assegna il porto di destinazione: Algeciras, vale a dire Gibilterra, là dove un tempo finiva il mondo, a più di mille miglia marine di distanza.
Il contraccolpo sulla missione 48 è inevitabile: data la lunga distanza da coprire per sbarcare i naufraghi, la partenza verrà riprogrammata, e tutti i volontari sono pregati di aspettare prima di acquistare il biglietto per Barcellona. Ricomincio ad agitarmi, ricomincio ad abbaiare, riverso sui Corpi la mia inquietudine: qualcuno si scoraggia, qualcuno continua a crederci. Poi, nel pomeriggio di venerdì 10 agosto, su Marine Traffic vedo Open Arms che lascia il porto di Algeciras; poco dopo ricevo il messaggio che lo conferma, la nave è ripartita con destinazione Barcellona, e ricomincio a crederci di nuovo. Controllo le distanze, calcolo il tempo necessario per il trasferimento, stimo che il ritardo dovrebbe essere di un paio di giorni, mi fiondo su internet per comprare il biglietto aereo – ma appena mezz’ora dopo ecco un nuovo «fermi tutti»: Open Arms, già in mare aperto, è stata richiamata in porto per un’ulteriore ispezione, e deve fare dietro-front. Lì capisco che è finita. È finita, sì, e mi chiedo cosa farebbe Beckett al mio posto. La risposta la conosco a memoria, sta scritta alla fine dell’Innominabile, e la metto in pratica. Resto dunque in stand-by per uno, due, tre giorni, pronto a scattare per la missione 48 che non ci sarà mai. Poi, la mattina del 14 agosto, da Open Arms arriva la comunicazione che la missione è sospesa a tempo indeterminato. Nemmeno il tempo di avvertire i Corpi e a Genova crolla il ponte Morandi.
Stella del MareMaria Vergine, con l’appellativo di Stella Maris, è la patrona di tutti i marinai del mondo. Il 15 agosto è il giorno della sua morte, consacrato dal calendario gregoriano alla sua assunzione in cielo. E proprio il 15 agosto, preoccupata per quello che sta succedendo in un Paese a lei caro, Maria Vergine convoca in riunione tutte le divinità marine bestemmiate in questi mesi infausti – di tutte le civiltà, di tutte le epoche – per evitare che la loro furia si abbatta sui cittadini di quel Paese. La convoca a Saintes-Maries-de-la-Mer, in Occitania, alla foce del Rodano, dove le altre Tre Marie della tradizione cristiana, Maria di Magdala, Maria di Cleofa e Maria Salomè, approdarono miracolosamente, guidate dalla Provvidenza, dopo essere state abbandonate nel mare della Cananea su una nave senza remi e senza vele. La lista delle divinità marine che si presentano al raduno è impressionante: innanzitutto la nutrita delegazione degli Elleni, priva di Poseidone, troppo adirato, e dunque guidata da sua moglie Anfitrite, che comprende Thalassa, la dea primordiale del mare, Brizo, dea della navigazione, Ceto, dea dei pericoli e dei mostri marini, Doride, dea della generosità del mare, Euribia, dea della padronanza sul mare, Galene, dea del mare calmo, Leucotea, dea preposta ad aiutare i marinai in difficoltà, e Forco, dio dei pericoli nascosti negli abissi marini; per gli Aztechi è presente Huixtocihuatl, la dea dell’acqua salata; per gli Hawaiani la dea del mare Namaka; per gli indù Samundra, dea dei mari; per gli armeni Tsovinar, dea del mare e delle tempeste; per i cinesi la dea Mazu, protettrice della gente di mare, e Ao Run, Re Drago del Mare Occidentale; per gli Ittiti Illuyanka, il formidabile Dragone degli oceani; l’altrettanto formidabile Mizuki, Dragone dei mari, per i giapponesi; il dio del mare irlandese, e sovrano dell’oltretomba, Manannan Mac Lir; il re maori del mare, Tangaroa; il dio finlandese delle profondità marine, Athi, e sua moglie Vellamo, dea delle tempeste; per le isole Figi c’è Daucina, dea della marineria; per gli eschimesi vengono le due dee del mare Arnapkapfaaluk e Sedna; per i lituani lo spirito-guida delle navi e dei marinai, Gerdaitis; Duberdicus, dio di mari e fiumi, viene per i lusitani; per i norvegesi Ràm, la dea degli annegati, e Njord, il dio della navigazione; per i filippini Magwayen, dea del mare e della morte; per gli slavi Czar Morskoy, il dio del mare, e sua figlia, la sirena Chernava; per i vietnamiti Cà Ông, patrono dei marinai; per i Sumeri Nammu, personificazione del mare primordiale; per i Babilonesi Tiamat, dea del caos e delle acque salate, nonché madre di tutti gli dei, e suo figlio Sirsir, dio dei marinai; il dio delle acque degli Assiri, Ea; il dio del mare dei Cananei, Yam; il Loa Voodoo del mare, Agwe; e tutti gli spiriti acquatici della diaspora africana, riuniti sotto il nome di Mami Wata.
Tutti giungono colmi d’ira e di sdegno, e il compito di Maria è assai complicato, poiché molte sono divinità arcaiche e crudeli, non inclini a fare distinzioni tra innocenti e colpevoli quando fanno calare la scure della vendetta sulle popolazioni che li hanno offesi. Ma piano piano, con dolcezza e fermezza, perseverando nella propria intercessione con l’aiuto delle altre dee-femmina, che sono in maggioranza, Maria riesce a placare l’ira funesta degli dei più spietati, e il popolo a lei caro viene salvato dalla distruzione. Riesce, la Stella del Mare, a diradare la cupa nube di risentimento scesa su tutte le comunità marine della Terra, e a trasformare la collera dei loro dei in una poderosa preghiera collettiva a protezione dei migranti di tutto il mondo, lasciando che le punizioni vengano rimandate al giorno in cui ognuno verrà giudicato per le proprie azioni, i malfattori saranno separati per sempre dalle loro vittime e la dignità di queste ultime verrà ristabilita.
Fine della storia del Principe della PandolfinaTornò a Palermo, il Principe della Pandolfina, girando al contrario intorno alla sua casa per un altro anno prima di poter riabbracciare sua moglie. Non così fece il suo servo Felicetto, che dopo la battaglia nel parco della villa per liberare il Santo Sepolcro, terrorizzato dall’idea di doversi rifare tutta la scarpinata a ritroso, disse: «Padrone, io resto qui, perché mi trovo bene». Il Principe lo salutò, si mise in cammino da solo e non gli rivolse mai più la parola – né mai più lo pagò, ovviamente, poiché era impossibile, dato che lui era tornato a Palermo mentre Felicetto era rimasto a Gerusalemme.
Il ritornoIl caso Diciotti. L’intervento della Chiesa per sbloccarlo (e dell’Irlanda). L’uomo che non conosce il mare indagato per sequestro di persona, sequestro di persona a scopo di coazione, arresto illegale, abuso d’ufficio e omissione di atti d’ufficio. Il sistema australiano. La recrudescenza del razzismo. L’Onu che riconosce che nei campi libici i migranti vengono torturati, la guerra civile a Tripoli, i «cani selvaggi» addosso a Papa Francesco... Nel mezzo di tutto questo arriva anche il mio giorno, e finalmente riesco a salire a bordo di Open Arms. Si tratta letteralmente di un giorno, uno solo, perché la nave è ferma, ormeggiata nel porto di Barcellona. La mia missione si riduce alla visita della nave (un romantico rimorchiatore del 1974, tutto analogico, trasformato in moderna imbarcazione di soccorso), a una cena con i membri dell’equipaggio, a una notte passata nella cabina dove avrei dovuto passarne venti, a un’intervista l’indomani mattina a Oscar Camps, fondatore dell’Ong Proactiva Open Arms, e a un pranzo d’addio con l’equipaggio. Fine. Ventiquattr’ore ore precise. Un po’ poco, in confronto a quello che avevo in mente – e tuttavia abbastanza da rendere necessario un ritorno.
Perché adesso io devo tornare. Devo tornare da dove non sono mai stato. Devo tornare quello che ero prima di mettermi ad abbaiare. Devo trovare un porto sicuro. Nella notte, dopo avere chiacchierato coi miei compagni di missione, rimasto solo sul ponte, prima di ritirarmi in cabina mi sono messo a fumare steso su un’amaca: pervaso dal karma positivo che zampilla da ogni centimetro quadrato di questo ponte, sul quale migliaia di persone sono state restituite all’unica idea di umanità che abbia un senso, capisco cosa devo fare per tornare. Devo smettere di sognare una missione su questa nave, innanzitutto, perché si sposterà a occidente, a compiere salvataggi tra il Marocco e la Spagna contro i quali nessun ministro avrà niente da ridire. Poi devo smettere di indirizzare messaggi via Twitter all’uomo che non conosce il mare, come ho cominciato a fare da una settimana. Devo andarmene da Twitter, già che ci sono. Devo rismettere di fumare. Devo eliminare Marine Traffic dal telefonino. Devo organizzare la caccia al tesoro sulla spiaggia per il compleanno di mia figlia. Devo ringraziare i Corpi che mi hanno sopportato per tutta l’estate. E devo scrivere, perché questo mi è dato di fare, e non è poco. Questo solo è il mio porto sicuro. Comincerò con l’intervista a Oscar Camps, e quando avrò scritto quella dovrò scrivere ancora, e ancora, e quando avrò ricominciato a scrivere tutti i giorni potrò dire d’esser tornato – e una volta che sarò tornato potrò fare la mia parte contro lo scempio che si sta consumando sulla pelle dei migranti. Insieme ai Corpi, magari, ma senza più abbaiare. E se poi, in futuro, mi capiterà di poter salire a bordo di una nave Ong per una vera missione, allora vorrà dire che sarò stato un buon cane, e di giorni ne avrò avuti due. Ma anche se non succederà potrò darmi da fare scrivendo. E quando mi sembrerà troppo difficile, perché più passa il tempo e più scrivere diventa difficile – è noto – potrò pur sempre mettere di nuovo in pratica la lezione del mio dio, che sta scritta alla fine dell’Innominabile e che io conosco a memoria perché l’ho messa come esergo all’inizio di quattro miei romanzi: «Non posso continuare. Continuerò».