La Lettura, 16 settembre 2018
Grigorij Perel’man, il genio matematico che fece il gran rifiuto
Grande figura di passaggio, insieme a David Hilbert, tra l’Ottocento e il Novecento, Jules-Henri Poincaré svolge un geniale lavoro di sintesi: da un lato, raccoglie le fila degli sviluppi più disparati della matematica ottocentesca; dall’altro, guarda avanti, avventurandosi in territori che mai nessuno aveva esplorato prima. Nelle sue mani, la geometria subisce una trasformazione radicale: con una memoria del 1895, seguita da cinque importanti supplementi usciti tra il 1899 e il 1904, Poincaré fonda la moderna topologia.
Chiamata originariamente analysis situs, o «geometria di posizione», prima di Poincaré la topologia si limitava allo studio di aspetti geometrici qualitativi. Se, per esempio, una circonferenza, un’ellisse o un triangolo sono figure distinte nella geometria ordinaria, esse sono invece equivalenti dal punto di vista topologico. Non importa che siano rotonde, schiacciate o abbiano tre (o più) vertici: per la topologia conta solo che le figure considerate siano tutte curve chiuse semplici. Togliendo un punto, la curva rimane connessa; togliendone due, si spezza in due parti. La connessione è una proprietà topologica; forma e dimensioni non lo sono.
«La topologia – scrive Poincaré – è l’arte di ragionare bene su figure disegnate male». Essa studia gli invarianti, cioè le proprietà che rimangono inalterate eseguendo trasformazioni molto generali: possiamo distorcere figure e spazi a nostro piacimento, basta non «strapparli» o «forarli». In questo senso, un pallone da calcio è topologicamente equivalente a un pallone da rugby, o a una pera, ma non a una ciambella: il numero di buchi (la ciambella ne ha uno, il pallone zero) è un invariante, che caratterizza un particolare spazio topologico e lo differenzia da un altro.
Poincaré si chiede: è possibile, sotto ipotesi opportune, ricostruire gli spazi a partire dagli invarianti? La domanda è profonda, e guiderà la ricerca matematica in questo settore per tutto il Novecento. La congettura da lui enunciata afferma che le sfere tridimensionali dello spazio euclideo a quattro dimensioni sono gli unici possibili spazi limitati e che non contengono buchi: tutti gli (infiniti) altri spazi con queste caratteristiche sono topologicamente equivalenti. È la «congettura di Poincaré», uno dei sette «problemi del millennio» selezionati dal Clay Mathematics Institute nel 2000, per la soluzione di ognuno dei quali è previsto un premio di un milione di dollari.
Nel novembre 2002 il matematico russo Grigorij Perel’man invia al sito web arXiv.org il primo di una serie di saggi con i quali si propone di dimostrare la «congettura di geometrizzazione» di Thurston, che comprende, come caso particolare, la congettura di Poincaré. La dimostrazione supera lo scrutinio della comunità scientifica internazionale, e nell’agosto del 2006 viene assegnata a Perel’man la Medaglia Fields, considerata il Nobel per la matematica. Per la prima volta nella storia del riconoscimento, però, Perel’man non la ritira: la sua sedia alla cerimonia di premiazione rimane clamorosamente – e, per molti, inspiegabilmente – vuota. Non solo: rifiuta sdegnosamente il premio in denaro, e rinuncia anche a pubblicare il suo lavoro.
La storia di Perel’man, che nel frattempo ha rassegnato le dimissioni dall’Istituto Steklov di Mosca, dove svolgeva le proprie ricerche, e si è ritirato a vivere con la madre nella periferia di San Pietroburgo, è raccontata da Masha Gessen nel libro Perfect Rigor (Carbonio editore). Non è un libro di matematica: Gessen, una giornalista russa autrice di libri sull’intellighenzia post-sovietica e le insidie dei test genetici, è interessata alle ragioni dell’estraniamento di Perel’man dalla comunità scientifica, ai motivi del suo abbandono della ricerca.
Di fronte al netto rifiuto di ogni intervista da parte del protagonista, l’autrice si è rivolta a chi l’ha conosciuto, ai suoi colleghi, ai suoi compagni di scuola. E sebbene sarebbe stato auspicabile uno spazio maggiore dedicato al significato dei contributi di Perel’man (per questo si veda Donal O’Shea, La congettura di Poincaré, Rizzoli, 2008), e uno minore agli stereotipi sulle bizzarrie dei matematici e la sindrome di Asperger, Gessen conduce abilmente il lettore nelle torbide acque della matematica sovietica degli anni Settanta e Ottanta, dipingendo con efficacia l’«ambiente angusto e meschino, fatto di intrighi, denunce, concorrenza sleale, dove era facile essere pugnalati alle spalle», in cui Perel’man si è formato. Un ambiente in cui «un matematico doveva essere affidabile dal punto di vista ideologico e leale non soltanto nei confronti del partito, ma anche verso tutti i membri dell’establishment».
Forse, suggerisce l’autrice, il disincanto che ha portato all’alienazione di Perel’man è stato il prodotto del suo essere «rigido, esigente e ipercritico»: caratteristiche, queste, che avrebbero finito per precludergli la possibilità di continuare a insegnare e di avere un rapporto «normale» con il mondo esterno. Ben scritto, coinvolgente per la perspicace ricostruzione della comunità dei matematici, e della «logica» che ha condotto Perel’man all’isolamento, quello di Gessen riesce nel difficile compito di essere un libro accessibile su un genio inaccessibile.