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 2018  settembre 16 Domenica calendario

Il grande illustratore Roberto Innocenti si racconta: «Ho messo il mondo nelle mie matite»

Lo studio di Roberto Innocenti è una stanza con un grande tavolo nella piccola piazza di una frazione di San Casciano Val di Pesa, la Romola. Lui la chiama «la bottega», con l’understatement che lo caratterizza ma che non gli impedisce impennate polemiche. Fuori dolci colline, vigne, strade quasi deserte nella calura settembrina del mezzogiorno; dentro colori, pennelli, libri, insomma i ferri del mestiere di quest’artista autodidatta, 78 anni, l’unico illustratore italiano (insieme a Gianni Rodari per la narrazione) a essere stato insignito, nel 2008, del premio Hans Christian Andersen, il riconoscimento più prestigioso della letteratura per ragazzi. 
«Qui – dice con il suo tono mite, sempre venato da ironia toscana – io sono uno straniero. Non sono nativo di questo posto, vivo a Montespertoli e qui non mi conosce quasi nessuno, i rapporti si limitano a buongiorno e buonasera». Prima il suo studio era a Firenze, in via degli Artisti, «ora in quei locali ci sono palestre e avvocati. È pieno di studi legali, perché è diventata una città di conflitti». Sulla scrivania sono sparse le tavole originali del nuovo libro, La mia nave, pubblicato in Italia da la Margherita edizioni. Lo spunto, racconta, è una poesia che gli ha mandato l’editore americano, Creative Education, dedicata appunto a una nave che, nel corso del tempo, viaggia e cambia pelle, diventando da container a nave da guerra, prima di inabissarsi. «Credo che sia il libro più semplice che ho fatto. Una nave e un marinaio che, insieme, attraversano non soltanto i mari ma anche la storia». Uno svolgimento lineare, dalla composizione perfetta, con la cura del dettaglio e del colore a cui Innocenti ha abituato i suoi ammiratori. 
Il libro esce a sette anni da Cappuccetto rosso. Una fiaba moderna in cui l’illustratore reinterpreta un classico in chiave metropolitana, dove il bosco è la città e il lupo un motociclista. «In mezzo c’è stata una mia malattia, ora quella di mia moglie» spiega, anche se, in generale, le tavole di Innocenti richiedono grande lavoro e quindi tempo. «Sono e resto un figurativo» sintetizza mentre tira fuori da pile di libri i disegni preparatori, le veline su cui compone le scene che poi trasferisce sulla carta. «Prima studio la prospettiva, faccio un progettino. L’acquerello non si fa più, non c’è più la carta adatta, da nessuna parte nel mondo. Bisogna fare uno strato di acrilico liquido. Diciamo che oggi l’acquerello viene meglio con il computer. Questa – dice mostrando un foglio spesso e poroso – è carta degli anni Cinquanta, ne ho ancora qualche foglio». Racconta di aver fatto, tempo fa, un corso di acquerello per l’Associazione illustratori. «I ragazzi non ci riuscivano, non perché fossero incapaci, proprio perché non era possibile. Ho dovuto interrompere le lezioni, ho ammesso: “Avete ragione voi, non si può”».
Innocenti tira fuori le tavole di uno dei suoi libri più belli e più famosi, Pinocchio, pubblicato in tutto il mondo. Mostra la traduzione in persiano, poi quella in georgiano: «L’ho portato a un festival a Prato. Per me erano geroglifici, c’era una ragazzino della Georgia, l’ha preso e ne ha letto un capitolo. Bellissimo». Pinocchio è un libro che ha richiesto molto tempo. Innocenti lavora sul dettaglio, sulla precisione, studiando e documentandosi con libri di storia, fotografie d’epoca. Ma interpreta anche il testo originale. «Pinocchio è di Collodi, bisogna ricordarlo. Non è né mio né di Disney. Io me lo sono immaginato come un ingenuo che cade in tutte le trappole, perché è senza esperienza del mondo. In fondo nasce come pezzo di legno all’età di andare a scuola. È molto diverso dalla lettura più comune che lo presenta come un bugiardo. A me sembra più falsa la Fata dai capelli turchini». A volte le idee dei libri di Innocenti sono semplici, come quelle di Casa del tempo, un volume che riproduce la stessa scena, una dimora in campagna, vista nelle trasformazioni di 300 anni. «È il libro più anti-cinematografico che abbia fatto, perché gli altri fanno riferimento alla prospettiva, all’obiettivo. Le pietre devono sempre rimanere al loro posto, deve crescere lentamente qualcosa: alberi, viti, parti dell’abitazione. Sull’Appenino di case come queste se ne vedono. Bisogna stare attenti agli abiti dell’epoca perché cambiano. Quelle della guerra, invece, sono scene che ho visto anch’io, da ragazzino». Innocenti conserva per sé tutti gli originali delle sue opere. «La speranza è che prima o poi si realizzi un museo dell’illustrazione, in Svizzera c’è un progetto di Étienne Delessert. Altrimenti le tavole degli illustratori finiscono in gallerie private o negozietti».
Il rapporto con l’editoria italiana è complicato. «Sarò anche un premio Andersen, ma alla Fiera del libro per ragazzi di Bologna non mi fanno mai parlare, non mi invitano ai convegni. I grandi editori italiani sono quelli che hanno gli stand più grossi e io non posso dirne bene perché se fosse dipeso da loro sarei sotto un ponte. Adesso qualche piccolo marchio che mi piace c’è, Orecchio Acerbo per esempio». 
Da quarant’anni l’editore di Roberto Innocenti è l’americano Creative Education. «Se l’editore è bravo e riesce a tenere in vita un libro per vent’anni, di questo lavoro si riesce a vivere». Rosa bianca ne ha quaranta, per esempio. Innocenti mostra la versione canadese per le scuole: è ambientato in Germania nell’inverno 1944-45, protagonista è una bambina il cui nome evoca quello di un gruppo di studenti che si opposero in modo non violento al regime nazista. «In Italia nessuno l’ha voluto. Neppure Emme, che mi piaceva molto come casa editrice. Creative mi pubblica tutto senza censura e fa vedere il libro a tutto il mondo. Ora ci sono i cinesi». 

Quello dell’illustratore è un lavoro solitario: tutto il giorno al tavolo da disegno, o al computer, per chi (la maggior parte) usa il digitale. «Per questo mi piace, quando mi invitano, andare nelle scuole, sempre gratis perché non hanno una lira. I ragazzi sono molto interessati, anche più degli adulti». Innocenti è un autodidatta: «Ci ho messo 25 anni. Come si impara? Guardando tutto quello che succede nel mondo. Ho speso più soldi in libri stranieri che altro. In una biblioteca ho visto libri degli anni Ottanta e Novanta, di una bruttezza e di una superficialità terrificanti, rispetto ai quali è facile sentirsi un genio. Io ho sempre disegnato fin da ragazzo, credendo fosse un gioco. Ho scoperto che disegnando si impara. Ora c’è la tv, lo smartphone, i giochi elettronici, allora non c’era niente e magari fuori c’era la guerra. Se non uscivo in strada con gli altri ragazzi, da solo in casa disegnavo. Non ero mai contento e quindi facevo e rifacevo. Non ho pubblicato molti libri anche perché ho iniziato a 43 anni, quelli che ho fatto prima erano tempo perso. Le faccio vedere i contratti? Erano delle truffe». 
Oggi pubblica libri che durino nel tempo. «Ci sarà sempre un bambino di dieci anni per cui quel libro è nuovo. Però per durare non bisogna essere provinciali, bisogna essere informati, sapere che cosa succede nel mondo. Io ho capito che la moda non va seguita, bisogna inventarsela. Ci sono tante scuole di illustrazione fatte da illustratori che non lavorano. Ormai in Italia funziona così: chi non riuscirà mai a diventare un professionista apre una scuola e poi chiama i professionisti a insegnare. È tutto un fiorire di corsi: per fotografi, illustratori, cuochi, giardinieri».
Tra gli illustratori contemporanei gli piacciono artisti con stili diversi: Sonia Maria Luce Possentini («ha lavorato in una fonderia, ha fatto un libro che si intitola La prima cosa fu l’odore del ferro, con questi colori rugginosi. Mi piace, anch’io sono stato metalmeccanico»); Vittorio Giardino che in Francia vende 20 o 30 mila copie («fa il segno chiaro, come nella scuola belga, in Italia ce ne sono pochi»). A Innocenti piace cambiare continuamente stile: «Ci sono disegnatori sempre riconoscibili, in tutto ciò che fanno: Jacovitti, Altan. Io resto sempre un figurativo, però il libro mi suggerisce come deve essere fatto. Il canto di Natale, per esempio, voleva essere tenebroso: è la Londra di fine Ottocento, mi hanno ispirato le tavole di Gustave Dorè. Ora non esistono più inglesi con queste facce».