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 2018  settembre 16 Domenica calendario

Ogni esecuzione di un nero era una festa

La vista migliore era al terzo piano del municipio. Salendo le scale con un certo affanno, e del resto bisognava fare in fretta perché tutto stava accadendo, John Dollins, sindaco di Waco, Texas, aveva invitato il miglior fotografo in città, Fred Gildersleeve, a seguirlo nel suo ufficio. E a quel punto, tra le grida che si levavano dalla piazza, aveva aperto la finestra. Il 15 maggio 1916 una folla di 15mila persone si era radunata intorno all’albero a cui era stato legato Jesse Washington, 17 anni, nero, accusato di aver ucciso Lucy Freyer, bianca. Il processo era stato sommario, nessuna difesa, il verdetto pronunciato in meno di un’ora e alla lettura della condanna il pubblico aveva trascinato l’imputato fuori dall’aula, l’aveva linciato a badilate, l’aveva impiccato e gli aveva dato fuoco. Per allungare i tempi dello spettacolo, il ragazzo era stato castrato e gli erano state amputate le dita. Di ogni fase dell’esecuzione Gildersleeve aveva realizzato una cartolina, stampata in centinaia di copie. Su una di queste un giovane aveva scritto alla madre: «This is the barbecue we had last night. My picture is to the left with a cross over it, your son Joe».  
Non era una novità, visto che si contano oltre 5mila linciaggi di afroamericani, e la cifra indica solo quelli registrati tra il 1882 e il 1968. Per ricordare quest’orrore e per ricordare le centinaia di migliaia di Joe che hanno applaudito al razzismo più osceno, James Allen, uomo di straordinaria cultura e coraggio, ha raccolto insieme al compagno di una vita, John Littlefield, più di 160 fotografie di esecuzioni brutali e diciotto anni fa le ha pubblicate in un libro memorabile, Without Sanctuary : Lynching Photography in America, edito da Twin Palms, oggi all’undicesima edizione. Dopo aver visto la luce durante la presidenza di Clinton e aver salutato la doppia elezione di Obama, il volume è tornato oggi alla ribalta grazie a Spike Lee, che ne conserva orgogliosamente una copia e la considera la premessa indispensabile a ogni discorso sul suo ultimo film, BlacKkKlansman, Grand Prix della giuria a Cannes e in uscita il 27 settembre in Italia. Ma se il film è stato premiato, nonostante (o proprio per) una regia con molte concessioni alle regole dell’intrattenimento hollywoodiano, questa terribile collezione d’immagini subisce i nuovi assalti della censura, come racconta James Allen, 64 anni, nella sua casa sul delta del fiume Altamaha, isolata tra querce secolari e palme, a mezz’ora di macchina da Darien, in Georgia. 
Che cosa sia un linciaggio, a livello morale, James lo scopre da ragazzo quando il padre e il fratello, bianchi e cristiani, lo allontanano dalla famiglia perché omosessuale. La risposta è curiosa. Per combattere l’odio e l’ignoranza, per lottare contro ogni amnesia, James diventa antiquario, a southern picker, un ricercatore di oggetti strani, provenienti dal sud degli Stati Uniti. «Trent’anni fa uno sconosciuto, residente a Macon, in Georgia, mi chiama e mi dice di aver trovato in una scrivania la cartolina di un uomo impiccato. Non ne sapeva nulla, né chi fosse, né cosa fosse successo e neppure se fosse americana. Compro l’immagine, la metto via e me ne dimentico. Molti anni dopo un’altra persona mi offre la cartolina di una donna afroamericana impiccata a un ponte. Questa volta c’è la data, il luogo e il nome del fotografo: 1911, Okema, Oklahoma, G.H Farnum. Un’immagine di questo tipo non è normale, non solo per quel che riprende ma perché è chiaramente un’immagine in vendita», racconta Allen. 
Iniziano le ricerche e James scopre che la prima cartolina ritrae il linciaggio di Leo Frank, imprenditore ebreo, processato con false accuse per l’omicidio di una sua dipendente e impiccato il 17 agosto 1917 a pochi chilometri da Atlanta, «la città dove sono nato, eppure di questo evento, che all’epoca fece scalpore, non era rimasta traccia né nelle istituzioni né negli archivi dei giornali, semplicemente rimosso. Invece queste due immagini parlavano di una tradizione americana, di fotografi americani che fotografavano i linciaggi e di un pubblico americano che acquistava i loro prodotti. In America tutto è in vendita, anche una vergogna nazionale». Altre indagini, dalla Library of Congress allo Schomburg Center for Research in Black Culture, ma nelle raccolte, se non per uno o due esemplari, queste cartoline sono assenti. «Invece dovevano essere da qualche parte, perché erano una produzione in serie, un orrore in serie. Allora ho deciso che le avrei cercate e comprate a qualunque prezzo, e insieme a John abbiamo girato ogni stato del sud, abbiamo pubblicato inserzioni, appeso volantini, chiunque poteva chiamarci, Ku Klux Klan compreso». Suona il telefono, una donna piange, era morto suo nonno e in un cassetto aveva trovato alcune di queste fotografie. «Mi ha detto: sono troppo spaventose per buttarle via. Di spaventoso c’era anche il fatto che queste immagini sono diventate popolari verso la fine dell’Ottocento, perché a trent’anni dall’abolizione della schiavitù i bianchi non potevano ancora accettare che la comunità afroamericana si emancipasse. Le fotografie dei linciaggi, delle mutilazioni, dei corpi carbonizzati, i negro barbecue come li chiamavano, diventano allora un monito sempre più frequente. Ogni esecuzione era una festa, uno spettacolo e il pubblico, anche bambini, assisteva a viso scoperto, perché non temeva nulla, si sentiva nel giusto. Il fatto poi che ci fosse una macchina fotografica, quella del fotografo ufficiale e un’infinita quantità di piccole Kodak, conferma che tutti erano sereni, tranquilli». 
Negli anni entrano nella collezione di James Allen decine di altre immagini, come quella che ritrae il linciaggio di Thomas Shipp e Abram Smith, avvenuto il 7 agosto 1930 a Marion, Indiana. Lawrence Beitler, che aveva lo studio in città, lo fotografa e lavorando per dieci giorni, anche di notte, ne stampa e ne vende migliaia di copie. Una di queste ispirerà la canzone Strange Fruit, composta da Abel Meeropol, insegnante ebreo e comunista, e interpretata per la prima volta da Billie Holiday nel 1939 al Café Society di New York. Meno di trent’anni e Bob Dylan canta «they’re selling postcards of the hanging», prima strofa di Desperation Road. Altri quarant’anni ed esce Without Sanctuary. «A quel punto ci siamo chiesti a chi affidare la nostra raccolta. E qui sono ricominciati i problemi. Abbiamo firmato un accordo con la Emory University di Atlanta perché valorizzasse la collezione e la rendesse disponibile agli studiosi. Poco o nulla. Quindi l’abbiamo ritirata e l’abbiamo offerta al Center for Civil and Human Rights, sempre ad Atlanta, con l’impegno che fosse esposta e invece in dieci anni non hanno fatto nulla. Questo perché in America puoi raccontare la storia solo a un livello comodo ai bianchi: quando vai oltre, fine dei discorsi, i tuoi interlocutori escono dalla stanza. Anche la comunità afroamericana oggi ha paura e invita i figli a stare calmi, a non fare troppe domande sul passato e a non accettare provocazioni». 
La conferma arriva nell’aprile scorso, quando sulle macerie dell’edificio dove erano rinchiusi gli schiavi, a Montgomery, in Alabama, viene inaugurato il National Memorial for Peace and Justice. Sulle 805 steli di acciaio appese al soffitto, come fossero corpi impiccati, come gli “strani frutti” di Billie Holiday, 805 quante le contee degli Stati Uniti che si sono macchiate di queste atrocità, sono incisi i nomi di 4.400 vittime. «Un giornale ci ha contattato per scrivere dieci articoli tratti dalle nostre fotografie». Dopo il primo, ordine superiore, la serie s’interrompe. Peccato: i lettori avrebbero potuto leggere la storia di Rufus Moncrief, di Oconee, Georgia, seviziato e impiccato nel 1917 perché non si era tolto il cappello alla vista di un gruppo di bianchi.