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 2018  settembre 16 Domenica calendario

Ritratto di Denis Verdini

Una condanna in più non gli sposta una libbra di carne. Fa curriculum. Fa biografia. Gugolando alla voce “Denis Verdini & Processi”, vengono fuori 47 mila e 700 risultati, in 0,34 secondi. Che è un po’ l’enciclopedia di questo fuoriclasse della politica post ideologica, degli ideali in tornaconto personale, meglio se incassati a debito. Una maschera – si è scritto in questi vent’anni scanditi da undici inchieste, e sei processi che lui chiama “una montagna di cazzate” – a metà tra Amici miei di Mario Monicelli, e le ombre nere di Mario Puzo. “Uno che ti ammazza mentre indossa lo smoking”. Però simpatico, specialmente ai cronisti parlamentari e ai delibatori di intrighi. Spavaldo ai bei tempi del Patto del Nazareno, che fu farina del suo sacco. E imperturbabile oggi, che quel sacco è (quasi) vuoto e che si avvia al tramonto sulla sua Vision Mercedes Maybach da 200 mila euro, in compagnia di tanti ricordi, tanti segreti e dell’ultima condanna.
Uno venuto dal nulla che ha voluto tutto. In gioventù tagliatore di manzi appena macellati, poi silenzioso masticatore d’affari e di investimenti immobiliari che nella segreta e mazziniana provincia toscana transitavano dal cemento all’eolico, dalla carta stampata alle banche, e che a forza di andare in malora e poi a processo – per truffa, abuso d’ufficio, bancarotta, violenza privata, corruzione, più un’accusa di stupro a inizio carriera (fu assolto perché “il fatto non sussiste”, ndr) – lo hanno fatto sempre più ricco e insieme più sfrontato. Dunque perfetto per intraprendere, in piena Seconda Repubblica, la nuova carriera di faccendiere multitasking. Un gallo tra i polli d’allevamento della politica italiana e tra i suoi sapienti esegeti, a cui volentieri Denis gettava frattaglie in forma di spiccioli e parole: “Tutti mi chiedono cosa ci guadagnano a venire con me. Gli rispondo che sono il taxi. Vuoi rimanere al potere? Solo io ti conduco in dieci minuti da Berlusconi a Matteo Renzi”.
E taxi lo fu davvero – per quattro settimane, poveraccio, anno 1997, elezioni suppletive del Senato – con la sua primissima Mercedes bianca, a scarrozzare nientedimeno che Giuliano Ferrara tra i vigneti di Sangiovese del Mugello e gli arrosticini all’inseguimento di Antonio Di Pietro, tagliando il traguardo di una sconfitta elettorale, a fine corsa, che per lui equivalse a una vittoria. Visto che Ferrara, letterariamente attratto dalla destrezza dei furfanti, specie se declinati in politica, si invaghì di quel ricco e servile autista al punto da presentarlo al suo leader naturale, Silvio B., che al primo sguardo ne riconobbe il talento di impassibile mangiatore d’anime, e altre qualità meglio nascoste, tutte annodate nel doppio fondo, eppure visibilissime come le cravatte di seta azzurra che a ogni pranzo sontuoso indossa su camicie, fatalmente impataccate d’arrosto, a rifinirne il sorriso. E a ornare quel suo incedere su scarpini di camoscio blu, con pancia e capigliatura rinascimentali, tra le eleganti volpi dei Palazzi che al bar Ciampini, ogni mattina di sole romano, gli pagano volentieri il caffè e lo zucchero, in cambio di consigli.
Denis Verdini, 67 anni, è cresciuto povero tra i tristi sassi di Fivizzano, terra di Lunigiana che fu dei sanguinari Malaspina e poi del mite Sandro Bondi, poeta. Ma presto traslocò a Campi Bisenzio, paesone di comunisti fiorentini, dove crebbe repubblicano, “ma non massone, lo giuro”, addestrandosi alle gomitate per farsi largo, e ai libri di Scienze Politiche studiati fino alla laurea benedetta dal vanitoso Giovanni Spadolini, il suo primo dante causa, che ammirava al punto da andare a vivergli nel villone accanto con la seconda moglie, la bionda e volitiva Simonetta Fossombroni, ex annunciatrice di TeleToscana, tra i glicini sontuosi di Pian dei Giullari. Buona postazione per gli affari, passati per tempo dalle lombate ai conti correnti del Credito Cooperativo Fiorentino, che in vent’anni di sua magistrale presidenza – dal 1990 al 2010 – eroga almeno “100 milioni di euro”, diranno i magistrati, “in assenza di adeguata istruttoria” a “persone ritenute vicine”, con delibere controfirmate dai consiglieri di amministrazione ridotti a “meri esecutori” delle sue volontà. Cioè a dire che la banca presta soldi senza garanzie agli amici e ai parenti del presidente, alla moglie, al fratello, a Marcello Dell’Utri, oggi in carcere per mafia, con buona pace degli ispettori della Banca d’Italia che per anni non vedono nulla o quasi.
Così come nessuno sembra accorgersi dei soldi che spariscono dalle casse del suo Giornale di Toscana, dove i fondi dell’editoria finiscono direttamente sui suoi conti correnti, pazienza per i fornitori e gli stipendi dei giornalisti, ma ottimo aggancio per i nuovi amici, che seguiranno da vicino la sua ascesa politica, come Gianni Letta e il suo schermo portatile, il piduista Luigi Bisignani. Introducendolo ad altre avventure editoriali, come quella del Foglio, dove oltre al solito Ferrara, siede pure l’editore Miriam Bartolini, in arte Veronica Berlusconi, che con il brivido di inchiostro glamour cerca di ammazzare la noia e le umiliazioni di casa. Denis scuce contante e incassa fiducia. Lo battezzano Mefistofele. Lui compra superattici a Roma, palazzi a Firenze e graziosi chalet in Svizzera. Fa affari con Giuseppe Mussari, quello del Monte Paschi di Siena. Dice: “Amo la politica”, intendendola alla maniera di Rino Formica, “sangue e merda”, ma sempre aggiungendoci cambiali a scadenza. Che lui distribuisce e incassa in qualità di “Coordinatore del Popolo delle Libertà”, cioè a dire segretario plenipotenziario di tutta la destra. E mentre il suo capo è massimamente distratto dalle festicciole con femmine a tassametro, lui elabora intrighi e business che i magistrati chiameranno P3. Fa affari con la Cricca nel dopo terremoto de L’Aquila. Progetta campi eolici con il solito Dell’Utri e Flavio Carboni, uno che nel curriculum ha l’ultimo viaggio di Roberto Calvi. Fa bisboccia con Guido Bertolaso che a quei tempi cavalca in groppa alla Protezione civile. Protegge gli affari della sua amica Daniela Santanchè e del suo amico, il sottosegretario Nicola Cosentino, detto il Casalese. E intanto manda a memoria le pagine del Principe. Convincendosi di averne trovato uno molto più giovane di Silvio, un tale Matteo Renzi, appena diventato presidente della Provincia a Firenze, figlio, neanche a dirlo, di un tizio che distribuiva proprio i suoi giornali, babbo Tiziano, con furgoni parcheggiati a Rignano. Lo incontra nel 2005 ed è buona chimica già alla prima cena: “Un comunista più anticomunista di questo non s’è visto mai”. Lo presenta al suo capo: “Silvio lo devi assolutamente conoscere. Non è dei nostri, ma è bravo”.
Bravo al punto da diventare il nuovo segretario del Pd (“Matteo Renzi, l’astro nascente! Io sono il suo idraulico”) sbarazzarsi di Enrico Letta, sedersi sulla poltrona di Palazzo Chigi, circondarsi del Giglio tragico, imbarcarsi sulle rotte del Nazareno, verso le nuove coste del partito della Nazione, convinto di lasciarsi alle spalle gli imminenti naufragi di Forza Italia e della vecchia sinistra. Ma senza accorgersi del suo, talmente repentino da lasciarlo stordito tra le macerie.
Così che anche Denis, il macellaio, resta per la prima volta a mani vuote. Nasce a sua insaputa la Terza Repubblica dei grillini e dei Salvini. Il mea culpa lo recita alla Camera, anno 2017: “L’antipolitica ha gonfiato le vele, Berlusconi è stato espulso infaustamente da questo Senato, il Patto del Nazareno è fallito, la riforma costituzionale è stata bocciata”. Tutto vero. L’anagrafe si è portata via Silvio, l’impazienza Matteo, le inchieste e i carabinieri gli amici. E quando la Limousine lo scarica davanti ai suoi ristoranti preferiti, Denis Verdini scende e pranza da solo. Poi fuma a tavola, anche se è proibito: gli piace prendere a calci le regole anche nel dettaglio. È la sua personale ginnastica, in attesa di trovare un nuovo capo da servire. Se ci sarà tempo.