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 2018  settembre 16 Domenica calendario

Videocamere accese e coscienze spente

Alle ore 13,30 minuti e 47 secondi del 7 febbraio scorso un ragazzo con un cappellino ben calato sulla testa entra nella chiesa di Santa Sofia, ad Anacapri, si guarda intorno circospetto, come temesse di essere visto mentre sta per fare quel che ha progettato. E dire che ha appena oltrepassato un cartello con la scritta: «Area videosorvegliata».
Sicurezza! Sicurezza! Sicurezza! 
L’invocazione incessante ha un solo beneficiario, politica a parte: il mercato della videosorveglianza. Le statistiche indicano una crescita del 10 per cento lo scorso anno e prevedono un costante aumento nei prossimi cinque. Si può vedere quasi tutto, ma esiste qualcuno che lo faccia in tempo reale? E se non c’è, come possono questi occhi elettronici evitare crimini e misfatti? Sono un deterrente, dicono. Davvero? 
Di certo esiste un impiego collaterale per quelle immagini: vengono riversate sugli schermi di televisioni, computer e cellulari. Basta un clic per ritrovarsi sulla scena del delitto, o quel che ne rimane. La visione è spesso preceduta da un messaggio pubblicitario, come fosse una clip dei gol più acrobatici di Quagliarella. Il filmato scorre e alla fine ne lancia uno successivo, senza darci tempo di riflettere su che cosa si è davvero visto. 
Ho provato a farlo con uno dei tanti omicidi dell’estate, trasmesso in differita.
Uccisa dall’amante
È accaduto nel Bresciano. La vittima era una giovane donna di 35 anni, di nome Manuela. È scomparsa alla fine di luglio. L’hanno cercata invano. Hanno mostrato una quantità di fotografie. Perfino un video, girato dalle telecamere di sorveglianza dentro casa. La si vedeva, in apparenza spensierata, disporre il bucato su uno stendino. Era un’immagine privata: la donna, molto probabilmente già una vittima, era in pantaloncini e canottiera, fra le sue pareti. Tre settimane più tardi il giallo è stato risolto: ha confessato l’amante, un collega quarantenne, sposato e padre.
La notizia ha avuto risalto per due motivi. Il primo: si inserisce nella catena di femminicidi che pare impossibile spezzare. Il secondo: il colpevole, commesso il delitto, se n’era andato in vacanza con la famiglia. In realtà quest’ultimo fatto non dovrebbe stupire. Tutti i criminali vivono una liberazione euforica. Pietro Maso, massacrati i genitori, andò in discoteca. L’idea dell’assassino preda del rimorso è una fantasmagoria misericordiosa, un ingenuo omaggio a Dostoevskij. 
Dopo la parziale confessione viene diffuso un secondo video, contenente le ultime immagini di Manuela da viva. A riprenderle è l’apparato di videosorveglianza montato in una casa del paese. La telecamera si trova sul terrazzo e riprende la strada che costeggia l’edificio. Il display informa che sono le 3 e 57 del mattino. Nessuno sta guardando. La donna cammina accanto a un’auto da cui è appena scesa, il conducente sta parcheggiando. L’uomo che apre la portiera è quello che la ucciderà. Mancano pochi minuti al delitto. Premeditato o preterintenzionale, pianificazione o scatto d’ira, su questo si giocherà il processo e la sorte dell’imputato. In quel video nulla traspare. Lui è soltanto un uomo appena tornato dalle vacanze, vestito per la spiaggia a notte fonda. Stanno entrando nel locale sotto la casa dei suoi genitori, riattato per un centro estetico. 
Se la storia potesse fermarsi qui, sarebbe un’altra cronaca di poveri amanti, i contorni dettati dalle convenienze. Tutti sanno, eppure lui vive ancora con la moglie, lei con l’ex fidanzato: evitano le conseguenze del disamore. I due spariscono oltre il cancello. A parte l’ora, nulla di strano. Alle 6 e 15 davanti alla stessa telecamera riappare soltanto lui, a torso nudo. Lei è già morta, ma il corpo verrà spostato più tardi. Il confronto fra le due riprese rivela tutto. Se qualcuno le guardasse, lui non farebbe in tempo a occultare il cadavere e partire per la Sardegna. Tutto si chiarirebbe subito, ma non è così che vanno le cose e rischia perfino di farla franca prima, di far passare la tesi dell’incidente poi. A che cosa serve allora sorvegliare, se non garantisce di punire? A scoraggiare? 
Il ragazzo con San Pietro
Avevo questa domanda in testa e mi trovavo ad Anacapri quando ho letto sul giornale locale la notizia del ritrovamento, nel giardino di un turista abituale, della statuetta trafugata mesi prima nella chiesa di Santa Sofia. Si trattava di una riproduzione di bronzo, alta 35 centimetri, del San Pietro ospitato in Vaticano. Ho conosciuto il parroco, don Massimo. un giovane e brillante sacerdote con una passione per la letteratura. Durante la conversazione mi ha domandato se avessi visto il video del furto. È a quel punto che entra in scena il ragazzo con il cappellino. In quel pomeriggio di febbraio, ripreso da due diverse angolazioni, incurante delle telecamere, infagotta la statua nel cappotto che ha sulle braccia e si allontana. Venti giorni più tardi, ad Anacapri nevicherà. Non ci sono turisti sull’isola a febbraio. Eppure nessuno riconosce il ragazzo in quel video. Che cosa stava realmente verificando quando ha lanciato lo sguardo alla fine della navata? Da che cosa si nasconde l’assassino di Manuela quando la conduce in quel locale riattato? 
All’inizio ho usato l’espressione «crimini e misfatti»: appartiene al titolo di un film di Woody Allen. Racconta un delitto commesso da un uomo ai danni dell’amante e la sorpresa di questi, rimasto impunito, per la rinnovata serenità. Nella scena finale partecipa a una festa di matrimonio e incrocia Allen seduto in disparte. Gli propone il soggetto per un film, in realtà parlando di sé, ma di un sé alternativo, torturato dal rimorso. Dice: «Quest’uomo immagina che Dio stia sorvegliando ogni suo movimento e l’universo sia una giusta e morale certezza». Poi scrolla le spalle, va da sua moglie, l’abbraccia e fa progetti per il futuro. 
Il deterrente più implacabile è sempre stato, e altrove ancora è, l’occhio di Dio. Se quello non è contemplato, se l’occhio dell’uomo è distratto da troppi schermi, restano videocamere accese e coscienze spente.