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 2018  settembre 16 Domenica calendario

Intervista a Luciano De Crescenzo

Tutto in Luciano De Crescenzo — dagli occhi chiarissimi alla barba candida, dal corpo lievemente appesantito alla voce che sembra uscire da un grammofono di altri tempi — esprime bonomia, quel senso di sapida tolleranza che prima di essere virtù democratica è virtù dell’animo. De Crescenzo sfiora la tastiera del computer, come se da quell’oggetto a lui particolarmente caro ( è stato ingegnere dell’Ibm) debbano uscire le parole per nuovi progetti e nuovi sogni. Ora che ha toccato il traguardo dei 90 anni vive come se un nuovo capitolo si stia per aprire: «Non ne capisco bene la direzione. La vecchiaia ha reso tutto più lento e questo mi permette di soffermarmi su cose che in passato avrei ignorato. È uno dei pochi vantaggi. Mi sento più affaticato, ma anche più sensibile. Non ho orari, non ho scadenze, in un certo senso non ho limiti imposti dall’agenda. E se ripenso alla mia vita, cosa che a volte faccio, avverto un senso di coerenza, di continuità, di felice scompiglio tra i pensieri. Mi capita di dimenticare i nomi, di non avere i riflessi di un tempo, quella prontezza che è insieme ironia e intelligenza del vivere. Ma alla fine che ti devo dire? Sono stato fortunato».

È anche l’ambizioso titolo che hai dato al tuo ultimo libro. Ne hai scritti più di quaranta e venduto milioni di copie. Sei uno dei rari casi di incontestabile successo. Nato, per altro, in un campo complicato come quello della filosofia. Come ti è venuto in mente di occupartene?
«Ero reduce dal successo imprevedibile di Così parlò Bellavista, con cui avevo venduto più di seicentomila copie solo in Italia. L’editore mi propose subito un Bellavista due. In quel periodo volevo scrivere di altro e pensavo alla Grecia antica. Al modo in cui la filosofia era lo strumento principe di comunicazione. Quando non c’erano la televisione, la radio, internet. Ma soltanto le piazze e i simposi dove discutere di tutto. Lo dissi al mio editor».
Cosa accadde?
«Si scatenò l’inferno. Fui convocato in casa editrice e cercarono in tutti i modi di farmi cambiare idea. Mi dissero che ero impazzito. E che il mio libro sarebbe finito al macero. Volevo essere uno scrittore invenduto? Loro non avrebbero collaborato. Andò avanti per tutto il pomeriggio. Io fermo sulle mie posizioni. Loro terrorizzati dal fallimento. Li presi per sfinimento e perché dopo tutto c’era stato il successo di Bellavista».
Successo che replicasti.
«Il primo dei tre volumi della mia Storia della filosofia vendette mezzo milione di copie. Quando poi con Il dubbio raggiunsi un milione di copie mi convinsi che la filosofia non era materia per pochi. L’importante era spiegarla con parole semplici».
L’operazione fu considerata poco seria dagli addetti ai lavori. Dissero che il tuo lavoro squalificava il sapere che fu di Socrate e Platone. Come reagisti?
«L’invidia è un brutto sentimento che non ti aiuta a vivere bene. Oltretutto, ti priva degli strumenti creativi. E quella che percepivo, diciamo nell’ambito accademico, era appunto invidia: come ti permetti povero ingegnere di uscire dal tuo campicello per venire a parlare dei massimi sistemi? Solo che io non parlavo di massimi sistemi ma di cose minime che stanno a cuore alla gente e per questo ero amato dal pubblico dei lettori. Io non mi ritengo un filosofo. Diciamo costeggio con la mia barchetta la materia. Tutto qui».

Socrate ragionava sul potere, ma non aveva denaro. Tu ragionando su Socrate sei diventato ricco. Che rapporto hai con il denaro?
«La maggior parte delle persone corre dietro al denaro e al potere convinta che possano garantire l’immortalità. Quando arrivi a una certa età però, ti accorgi che i soldi aiutano sì a vivere, ma che il bene più prezioso è un altro, il tempo. Tu dici: sei un uomo ricco. È vero. Ma a un certo punto della mia vita sono stato colto da una specie di crisi francescana e ho cominciato a comprare solo il necessario. Per vivere bene basta poco. Ma se hai poco puoi rischiare di vivere male».
Non vivevi con poco quando per la tua passione per i cavalli hai rischiato di rovinarti.
«La febbre del gioco è una patologia. Fino a trent’anni sono stato un assiduo frequentatore di ippodromi. Ma non tanto a causa del demone del gioco, quanto perché consideravo il cavallo un animale bellissimo. Mi piaceva scommettere ed erano più le volte che perdevo, che quelle in cui vincevo. Sbagliavo? Sicuramente. Ma le emozioni provate durante le corse mi hanno ripagato di tutti i soldi sperperati».

Come ne sei uscito?
«L’handicapper ufficiale dell’ippodromo di Napoli mi propose un lavoro come assistente. Così misi da parte le scommesse e continuai a seguire le corse solo come spettatore».
A parte i cavalli le altre tue passioni sono state le donne. Come sei quando ti innamori?
«Se ti riferisci ad oggi, da molti anni ormai all’amore preferisco l’amicizia. In passato le cose sono state più complicate».
So di tue passioni travolgenti ma anche di rifiuti e delusioni subite.
«Mi fai tornare molto indietro nel tempo. Tieni conto che sono diventato maggiorenne prima che chiudessero le case di tolleranza».
Tu le frequentavi?
«Faresti prima a chiedere chi non le frequentava. Ma non sono mai stato un cliente abituale. E non necessariamente vi andavo con l’idea di consumare. Ti racconto questo episodio. Un compagno di classe mi presentò zì Alfonso, un losco personaggio che commerciava in liquori. Ci dava dieci lire per ogni bottiglia di whisky che piazzavamo nei casini. Le portavamo nelle cassette. Il whisky scozzese di zì Alfonso era fabbricato a Casavatore ».
Com’era?
«Veleno! Guagliò, ci minacciava, non lo bevete, basta un sorso e si muore sul colpo. Era per gli americani che aspettavano le "segnorine". Una di esse, molto carina, mi vide mentre scaricavo in cucina le cassette di whisky. "Quant’è bello ‘stu piccirillo! Quase quase m’’o facesse!". Fu il primo complimento che ebbi da una donna. Ketty si faceva chiamare. Più che innamorarmi entrò nel mio immaginario erotico e ci rimase a lungo, anche quando partì e non ne seppi più nulla».
Ma quello non fu il primo amore?
«No, anche se di primi amori ne ho avuti quattro o cinque. Il primissimo fu con Lilly. Lei aveva otto e io nove anni. Abitavamo nello stesso palazzo. La famiglia era ebrea e per questo improvvisamente sparì. Seppi dopo che era riuscita a partire per l’America. Poi venne Giselle. Ero al liceo. Le feci la corte, ci mettemmo assieme. Ma era inquieta e snob. Mi invitò nella sua casa per il veglione di capodanno del 1947. Affittai uno smoking, elettrizzato dall’idea di passare un’intera notte con lei».
Cosa accadde?
«Non mi filò per tutta la sera e lì capii che aveva un altro».
Soffri gli abbandoni?
«Da morire. Poi venne Gilda. Ci sposammo. Dopo quattro anni ci separammo. Ricordo che una mattina mentre mi facevo la barba Gilda mi disse: Luciano, io vado via. Non capii e le dissi: se aspetti cinque minuti esco con te. Mi voltai e vidi che aveva la valigia in mano. Poi fu il turno della "maestrina", così la chiamavo per via degli occhiali. Era una prostituta. Gran cuore e intelligenza. Le raccontai tutte le mie sventure. Era una finissima psicologa. E non mi ha mai compatito. Poi sono venute altre storie. Belle, deludenti, istruttive. E ho imparato a non piangermi addosso. Ormai alla mia età quando incrocio una bella donna mi volto a guardarla, mi piace, ma non ricordo il perché».
Come vivi la vecchiaia?
«Ho paura degli effetti dell’invecchiamento, non della vecchiaia, che è una stagione bellissima. Quanto alla paura è uno stato d’animo indefinibile; si manifesta quando ci troviamo di fronte a qualcosa sulla quale non abbiamo il controllo. Sicuramente la mia paura più grande è il dolore fisico e poi la paura di perdere gli amici, alcuni se ne sono andati purtroppo».
Forse uno degli amici più cari è Renzo Arbore. Cosa gli devi e cosa lui deve a te?
«Non credo che l’uno debba qualcosa all’altro. Io e Renzo siamo amici da una vita. Quello che noto è il suo portamento innato, la capacità di rendere elegante qualsiasi cosa faccia o indossi. Persino i suoi improbabili gilet. Con Renzo abbiamo condiviso sia i momenti felici sia quelli meno felici della nostra esistenza. Sicuramente abbiamo riso e continuiamo a ridere tanto. La vecchiaia per noi non è stato un handicap».
Pensi che con la vecchiaia si migliori?
«Penso di sì, anche se trovo un po’ ridicolo e pericoloso vedere certi che rincorrono la giovinezza a tutti i costi. Ognuno di noi è come un salvadanaio che si riempie con le esperienze della vita. Le rughe che segnano il nostro viso sono il risultato dei sorrisi, dei crucci, insomma di tutto ciò che ha suscitato in noi un’emozione. Cancellarle è un po’ come cancellare una parte del nostro vissuto».
Tra le tue esperienze c’è stato anche lo sport, eri un atleta che correva i 400 metri. Chi volevi diventare?
«Lo sport mi ha insegnato la determinazione, la tenacia, perché come durante una gara, così anche nella vita, il traguardo, qualsiasi esso sia, è molto più vicino di quanto possiamo immaginare. Ora non saprei dirti se volevo diventare qualcuno in particolare, di sicuro mi sono impegnato; ho vinto anche una medaglia d’oro, poi a un certo punto mi sono reso conto che non sarei andato molto lontano e mi sono riciclato come cronometrista ».
Hai sempre fatto scelte razionali?
«Ho cercato di non perdere mai il contatto con la realtà, questo sì. I 400 metri sono stati per me una filosofia applicabile alla vita. Non puoi dare tutto nei primi trecento. Devi dosare il passo e la distanza. Altrimenti scoppi. Mi è sempre piaciuto pensare di avere ancora qualche metro a disposizione e che il traguardo non è mai così vicino quanto si pensa».
Gli ultimi metri sono i più difficili.
«Lo sono, per questo devi conservare le energie. Come tutti ho vissuto momenti complicati. Penso al divorzio o a qualche acciacco che mi ha un po’ rallentato, ciononostante sono stato fortunato perché ho incontrato persone nella mia vita che mi hanno consentito di vivere più i momenti belli che quelli brutti. Flaiano diceva che nella vita di un uomo i giorni indimenticabili sono cinque o sei. Il resto fa volume. Non sono totalmente d’accordo. Ogni cosa che ho fatto, errori compresi, mi ha portato dove sono adesso e direi che non mi è andata così male ».
Cosa chiedi ai tuoi novant’anni che hai appena compiuto?
«Cosa chiedono loro a me. Trovo che sia ancora più evidente la differenza tra tempo fisico o esterno, ovvero il tempo uguale per tutti, e quello interno o psichico che il mio caro Sant’Agostino definiva "un’estensione dell’animo umano"».
La butti sempre in filosofia.
«Noi napoletani siamo i più vicini ai presocratici».
Dì la verità: ti senti davvero un filosofo?
«Avverto nella tua domanda un certo razzismo culturale. Di volta in volta sono stato definito macchiettista, umorista, attore, divulgatore. La verità è che sono un simpatizzante. Adottala come una categoria dello spirito. La simpatia è quella che ti fa prendere cura di te e degli altri. E allontana l’idea della morte ».
Napoli ha un modo speciale di elaborare la morte e il lutto, non ti sembra?
«Noi napoletani abbiamo un rapporto amicale con la morte. Ricordo di una foto dove ci sono due ragazzi che mangiano una fetta di pizza mentre trasportano una bara. Forse agli occhi di un estraneo potrebbe sembrare un sacrilegio, in realtà è solo la dimostrazione che quello della vita è un ciclo continuo e ne abbiamo tanti esempi. Per quel che mi riguarda la morte non mi spaventa. Se potessi scegliere, preferirei un infarto, il dolore mi fa paura e la paura non mi fa ragionare. Ma poi torna il sereno. E penso: Luciano tu non sei vecchio, al più sei diversamente giovane».