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 2018  settembre 16 Domenica calendario

Stefano Sollima racconta il suo primo film americano e la nuova serie “ZeroZeroZero”

Dopo un anno e mezzo passato nel traffico ordinato di Los Angeles e nel mare di sabbia del New Mexico, quello col sampietrino romano è quasi un abbraccio: «È stato bello poter fare di nuovo base a Roma», racconta Stefano Sollima di nero vestito, gli occhi grigi che si sgranano nel viso magro. Si concede una pausa al ristorante dal montaggio di ZeroZeroZero, la serie tratta dal bestseller di Roberto Saviano, per raccontare il viaggio di Soldado. Il suo film debutto negli Stati Uniti ha retto il confronto con il Sicario di Denis Villeneuve (che definisce il film di Sollima "meraviglioso"), superando il predecessore al botteghino. Un thriller cupo e amorale, filtrato dallo stile del regista di Gomorra e Suburra. L’agente Fbi Josh Brolin e il misterioso vendicatore Benicio del Toro si ritrovano in un’operazione che vuole scatenare la guerra tra i cartelli messicani, mettendo al centro la giovane figlia di un boss. Sollima si alza in piedi e mima la scena — già culto — in cui Del Toro giustizia un avvocato dei narcos. Premette: « Benicio prima diceva "non sparo a un messicano", aveva paura che la scena fosse fraintesa, poi si è inventato quella presa doppia dell’arma visivamente straordinaria».

Dopo aver rifiutato una quarantina di progetti, perché "Soldado"?
«Ho detto no a cose distanti dal mio mondo. Soldado l’ho sentito omogeneo rispetto alle altre cose che ho fatto: racconto corale, antieroi, assenza di giudizio morale».
Soddisfatto del risultato?
« Molto. Mi pare di essere riuscito a mantenere la mia specificità. È un risultato che sento estremamente vicino a me. Non era scontato, lavorando in un’industria come quella americana, in cui il regista può non essere una figura chiave».
Il rapporto con Brolin e Del Toro?
«Brolin prima di incontrarmi si era visto sei puntate di Gomorra in una notte. Con Del Toro c’è stata subito intesa. I personaggi li conoscevano bene, ma ho proposto loro nuove sfide. Eravamo accomunati da una ricerca esasperata di verità».
Nessuna soggezione nei loro confronti?
«Ricordo il primo giorno: sei lì chiuso nella tenda solo con il tuo monitor. Dai le indicazioni per la scena, vedi Benicio e una parte di te ti dice "non ci posso credere, giri con Del Toro". Poi finisce il ciak, esci dalla tenda e ridiventi il regista. Spieghi quello che si può migliorare, rientri e ti dici "hai parlato con Benicio del Toro". Ecco, i primi giorni sono così, poi rimetti al centro il tuo lavoro».
Problemi sul set?
«Solo un momento di frustrazione assoluta. Alla vigilia della scena con il convoglio in corsa scoppia un temporale e il set è sospeso. Mi ritrovo immobile davanti alla coda infinita di macchine, un’auto tagliata a metà per girare all’interno, un russian arm, un elicottero e una sfilata di droni parcheggiati sotto la pioggia battente. Con l’amarezza del bambino davanti al negozio di giocattoli che ha appena chiuso».
Un film ambizioso anche sul fronte della lettura politica.
«Come i precedenti, è un film di intrattenimento che parla della nostra società, che affronta un argomento scomodo spero in maniera intelligente. Il traffico di esseri umani ha sostituito il business della droga in Messico e nel mondo. Ho immaginato quel deserto come il loro mare, spazi infiniti da attraversare verso la salvezza. E sono rimasto colpito dall’installazione Carne y Arena di Alejandro Iñárritu a Città del Messico, straordinariamente simile alla scena d’apertura di Sicario, girata un anno prima».
"Soldado" segna il punto d’arrivo di un viaggio lunghissimo.
« Sono cresciuto sul set con mio padre Sergio. Senza consapevolezza ho assistito a tutte le fasi della lavorazione, dal set al montaggio. A 12 anni guardando un western ho messo insieme i pezzi e ho capito cos’era il lavoro del regista. Due anni dopo ero certo di voler far quello nella vita».
Mai pensato a fare l’attore?
«Sono negato, troppo timido. Nel Corsaro nero, ero il giovane figlio di un pirata, papà però mi tagliò».
Cosa ama dei film di suo padre?
«Sono pazzo dei suoi western, ma da spettatore sono più legato a Sandokan, che ho vissuto sul set. Giocavo con la tigre. Chiedevo sempre "Ma Carole André gira?", perché così potevo usare io il suo cavallo. E imparavo a schermare con i maestri d’armi. Adoravo Philippe Leroy e con Kabir Bedi ci sentiamo ancora. Ai tempi di Corsaro nero ho vissuto quattro mesi a Cartagena: uscivi di casa e salivi sul galeone dei pirati, tra spiagge piene di palme. Vedi questi adulti che giocano con i cavalli e le armi che sparano davvero: come fai a non pensare di volerlo fare da grande?».
Suo padre la portava sempre con sé?
«Spesso. Anche perché aveva perso la moglie, mia madre. Avevo nove anni: lui mi ha fatto da madre, padre, zia, suocera e un po’ nonna. C’è stato un periodo difficile tra noi, durante la mia gioventù turbolenta. Perdendo mia madre ho perso un centro d’equilibrio. Parte dell’anno vivevo in collegio: senza la felicità di una famiglia ordinaria cresci in fretta, diventi cinico. Subisci il bullismo, ma impari a fronteggiarlo».
Papà la immaginava con un talento ancor più grande del suo?
« Da padre penso che immaginarlo per i miei figli sarebbe bellissimo. Ma quando ci siamo lasciati con papà il problema non si poneva, anche se ha avuto sempre fiducia nel mio talento. Ciò che sono oggi lo devo a lui. Mi ha cresciuto e insegnato non tanto una professione quanto a vivere».
Le faceva da consigliere?
«Ha visto solo i primi lavori importanti, prima di andarsene. Romanzo criminale gli era piaciuto molto, anche se aveva una difficoltà con il dialetto romano: "Non sarà troppo?". La sua era una visione legata al mondo cinematografico a cui apparteneva, in cui non era necessaria l’aderenza al realismo. Il cinema di quegli anni era più libero, meno introverso di quello di oggi. Che fosse d’autore o d’intrattenimento, era pensato per gli spettatori. L’unica vera cosa che mi sono portato dietro dal rapporto con mio padre è l’idea di un cinema rivolto a un pubblico anche ampio, senza trasformarsi per questo in racconto facile, accomodante».
Suo padre sentiva la divisione tra il cinema d’autore e popolare?
« Paradossalmente c’è più adesso che allora. Leone, Melville, Friedkin, Coppola non avevano paura del genere. La divisione è arrivata a fine anni 80: con le tv commerciali il cinema ha perso capillarità. La tv ha iniziato a produrre e trasformare il genere in un suo prodotto, al cinema è scomparso o è diventato di serie b. L’arrivo di Romanzo criminale non è stato un caso. Quando me l’hanno proposto tutti gli altri erano diffidenti, la tv da noi era figlia di un dio minore. Ma nel mondo c’era stata la rivoluzione della Hbo: il cinema popolare intelligente era iniziato a passare dalla tv, si era aperta la nuova frontiera».
Qual è stata la sua esperienza fondamentale?
«Lavorare come cameraman delle news, dai diciannove ai ventisei anni. Impari a osservare bene la realtà per raccontarla. Anche se sei davanti a qualcosa di straordinario e terribile devi restare un osservatore freddo e imparziale: se metti il tuo giudizio morale fallisci nella missione di riportare quel che sta succedendo».
La prossima sfida è "ZeroZeroZero".
«È un progetto complesso e ambizioso a cui lavoro da quasi quattro anni. La sfida stavolta è fare qualcosa di completamente diverso da ciò che avete già visto, affrontare un tema che ho raccontato in film e serie da un’angolazione originale: l’idea è un racconto della globalizzazione attraverso la merce più controversa, la cocaina».
Farà discutere?
«Spero proprio di sì».
Il momento più felice e quello più terribile della sua carriera?
«Il peggiore quando non ce l’avevo, una carriera. Il più felice penso arriverà».