Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  settembre 16 Domenica calendario

«Ripenso ai Beatles (e a quando vidi Dio)». Intervista a Paul McCartney

Qualche settimana fa, Paul McCartney è tornato negli studi di Abbey Road per un concerto privato. Il giorno dopo, nel suo ufficio di Soho Square, si sta ancora crogiolando nella gioia di aver suonato per la sua famiglia, gli amici e gli ospiti famosi, perlopiù invitati dalla figlia Stella. «Ogni volta che torno ad Abbey Road», racconta, «mi fermo e ripenso a tutti i momenti creativi che ho vissuto». Fa una pausa. «Ah, e là c’è John, sta suonando Girl... ».
La musica che Paul McCartney ha creato con John, George e Ringo è già alla terza generazione, come minimo. I Beatles si sono sciolti quasi cinquant’anni fa, ma le loro canzoni risuonano ancora per strada in questo Paese, così come in cielo, e ognuno ha una canzone dei Beatles preferita. Le mie sono A Day in the Life e Norwegian Wood, ma mi piace anche Let me roll it dei Wings. Musica destinata a durare nel tempo. Ma per il momento, e per autocelebrarsi a settantasei anni, il compositore pop di maggior successo di tutti i tempi pubblica il diciassettesimo album da solista in studio, Egypt Station, che andrà ad aggiungersi ai suoi settecento milioni di album venduti.
L’album ha una serie di pezzi eccezionali, da Confidante, piacevole e acustica, ai sette minuti di Despite Repeated Warnings, passando per il procedere tronfio del rock di Who cares, e offre quel che ci si aspetta da un disco di McCartney del 2018: comprende cinque o sei pezzi che Paul può suonare durante i concerti senza che sembrino degli impostori che sostituiscono Love me do. Il primo singolo, I don’t know, è una delle sue migliori melodie da anni.
Non c’è da stupirsi allora che abbia un aspetto rilassato quando ci sediamo assieme. Indossa una camicia ampia e un paio di sandali: un classico pensionato inglese d’estate, gli daresti sì e no sessantacinque anni. La scrivania su un lato della stanza è piena di foto dei figli e dei nipoti, e la custodia del suo iPhone è decorata con un ritratto di famiglia, pieno di gente. Siamo seduti su un divano vicino a un jukebox e a una chitarra, circondati da opere d’arte.
Paul McCartney ha gli occhi grandi e splendenti, e viene subito da pensare a tutta la gente che ha conosciuto, e ai ricordi che svaniranno quando se ne sarà andato. Perché, ovviamente, non resterà con noi per sempre, e quando accadrà sarà una cosa davvero molto strana. «Cioè, se si guarda la storia, la regina Elisabetta I ha avuto Walter Raleigh», lo scrittore- esploratore che lanciò il mito dell’El Dorado, «e la regina Elisabetta II ha avuto i Beatles», dice, e la maggior parte di noi inglesi non ha ricordo di un tempo senza la nostra monarca e i suoi ragazzi col taglio moptop, sinonimi entrambi della Gran Bretagna, visto che loro iniziarono l’ascesa sotto il suo regno, nel lontano 1963.«Lei è il collante», dice McCartney della Regina, alla quale ha fornito una colonna sonora per tutto il suo regno, a esclusione del primo decennio. A maggio il musicista ha ricevuto la sua ultima onorificenza, “Companion of Honour”. E di che cosa avete parlato questa volta? «Non si deve dire, quindi farò il bravo bambino», risponde in modo irriverente, palesemente tentato di rivelare tutto. Le ha mostrato come si suona il pianoforte come ha fatto con Stormzy, il rapper? «No. Purtroppo non c’era un pianoforte, altrimenti le avrei fatto vedere un do centrale». È un fan della monarca fin dalla sua incoronazione. Aveva dieci anni quando scrisse un tema su di lei, grazie al quale vinse un paio di libri. Già a quei tempi gli piaceva: si conoscono da mezzo secolo.
Essere in compagnia di McCartney è rasserenante, emana calma e sense of humor. Eppure, a volte, la sua splendida voce s’incrina, rivelando che sì, ebbene sì: è umano. Dal vivo galvanizza il pubblico: come la giovane con indosso un vestito glitter che si dimenava sulle note di A hard Day’s Nightdurante il concerto di presentazione del disco che ha tenuto agli studi di Abbey Road. Ma in confronto all’uomo sul palco, che trasuda energia fisica dal primo accordo, di persona Mc-Cartney è umile. Certo: per come conversa si vede che è uno che ha vissuto quasi otto decenni, con più storia alle spalle della maggior parte della gente. Ma forse è proprio per quello che è confortante: si prova sempre una strana sensazione quando si scopre che qualcuno così grande in fondo non è come noi idioti qualunque.
"Ho tante lezioni da imparare”, canta in I don’t know. E la cosa mi intriga, gli dico, non solo pensando alla sua età, ma perché lui è nientemeno che Macca, accidenti. «Ma tu, da ragazzino, hai mai pensato che un giorno ti sarebbe stato tutto chiaro?», mi risponde retoricamente, sempre tranquillo. «Cioè, che avresti capito come funzionavano le cose, e quindi non avresti dovuto preoccuparti delle nuove sfide? Beh, secondo me non è vero: la vita non è così. La vita continua a prenderti in contropiede. Continua a cambiare. Ed è questo che la rende affascinante». «E poi, quando hai dei figli, non smetti mai di imparare, perché non esiste un modo giusto e riconosciuto di crescerli. È la più grande improvvisazione della vita: visto che a te ti dicono di comportarti in un certo modo, ma magari tuo figlio non rientra in quella fattispecie. Vado indietro nel tempo, e non mi viene in mente nessuno che non abbia mai avuto una qualche insicurezza». E lei di che cosa è insicuro? «Di cose qualsiasi. È davvero una bella canzone? Sarà questo il modo giusto di crescere i figli?». C’è questo luogo comune, dico, per cui essere una pop star porta sempre con sé la felicità. «Porta i suoi problemi», dice. «Detto questo, io ho una vita molto bella», e fa una pausa, battendo per scaramanzia le nocche sul legno di una mensola accanto a sé. «Ma in questa vita molto felice ci sono anche delle insicurezze. Non sono mai arrivato a un punto in cui mi sono detto: “Fanculo. Io sto che è un piacere. Le preoccupazioni le lascio a voi"».
Gli dico che è arrivato il momento di affrontare questioni profonde. Lui annuisce. Qualche mese fa, durante una puntata di Carpool Karaoke con James Corden, l’attore, in cui i due giravano in macchina cantando per Liverpool, Corden ha accennato a suo nonno, e a come gli sarebbe piaciuto sapere che suo nipote era in macchina con uno dei Beatles, se fosse stato ancora con loro. “C’è”, ha risposto subito McCartney, ed è stato stranamente splendido, persino spirituale. Corden ha pianto. Gli chiedo: che cosa voleva dire? «Nel senso, se c’era un che di religioso?», chiede McCartney. Esatto. «Non proprio. Ma avendo perso entrambi i miei genitori e Linda, avendo vissuto l’esperienza della morte di persone a me care, sono parole che ti senti dire spesso quando confessi che ti manca tanto una persona. “Tranquillo”, ti dicono, “sono qui, ti guardano da lassù”. E una parte di te pensa che non c’è nessuna prova di questo. Ma c’è un’altra parte di te che vuole crederci».
La voce s’incrina. «Quindi», prosegue quasi in un sussurro, «mi piace permettermi di pensare che ciò” avviene”, piuttosto che fermarmi al pensiero che” possa avvenire”. Ho cominciato a concedermelo. Quando è morta Linda... Quando vivi una sofferenza del genere, noti le piccole cose, sapendo che tu ci vedi più di quanto ci sia, ma non t’importa. Ti concedi il lusso di vederci più di quel che c’è. Una volta ero in campagna e ho visto uno scoiattolo bianco. Ecco, questa era Linda, tornata per darmi un segnale». Trasalisce al ricordo. «È stato un momento straordinario. Mi ha emozionato. Avevo la pelle d’oca! Ovviamente, io non ho nessuna prova che fosse lei, ma mi faceva bene pensarlo».
Nel 1967, McCartney disse del suo compagno Harrison: “Invidio George, perché adesso ha una grande fede. Sembra aver trovato quel che stava cercando”. Quando gli chiedo se è ancora invidioso, mi risponde che lui non ha mai cercato davvero, e che, pur essendo sua madre cattolica e suo padre protestante, la sua non era una famiglia religiosa. E quello è quanto gli è rimasto. Gesù, dice, ha detto un sacco di cose straordinarie e la Bibbia un sacco di cose tremende, per lo più sulla vendetta. Quindi lui sceglie da diverse religioni come fosse un cesto di ciliegie per creare la propria fede. «Ma credo davvero che esista un’entità superiore», dice abbastanza inaspettatamente. Tipo cosa? «Non ne ho idea! Ma è una sensazione che provo grazie a delle esperienze che ho vissuto. Una volta ho preso una droga, il Dmt. C’era questo gallerista, Robert Fraser, io, e un paio di altre persone. Ci trovammo improvvisamente inchiodati sul divano. E io vidi Dio, questo essere straordinario che torreggiava su di me, e mi sentii umile. Quello che voglio dire è che quell’attimo non ha certo cambiato la mia vita: ma fu un indizio». E che aspetto aveva Dio? «Era grandissimo. Un muro enorme di cui non vedevo la sommità, e io ero giù in fondo. Sì, chiunque avrebbe detto che era solo la droga, un’allucinazione. Ma sia io che Robert dicemmo: “L’hai visto?”. Avevamo la sensazione di aver visto un’entità superiore». Scoppia a ridere. «M’immagino i titoli in prima pagina:” Ho visto Dio!"».
Be’, non mi aspettavo che andasse così tanto in profondità. Ma in fondo è da decenni che è affascinato dall’aldilà, mai soddisfatto dalle cose semplici, dai tempi di Pirati dei Caraibi, il documentario Pure McCartney VR realizzato con la tecnologia della realtà virtuale ( «Mai perdersi uno spettacolo dal contenuto immersivo!»), una collaborazione con Kanye West... Non si ferma mai, gli dico. «Sì», mi risponde sfoderando un sorriso. «A dirlo sembra banale e sdolcinato, ma questo viaggio... Mi piace questo aspetto continuo della creatività». Prende la chitarra. «Per esempio, quando ho lavorato con Kanye, ero lì nel bungalow di Beverly Hills, e facevo...». E a quel punto McCartney mi fissa, inarca le sopracciglia e parte con una versione rallentata del motivo diFourFiveSeconds, il pezzo composto con West nel 2014. Io batto il ritmo col piede. «All’inizio pensavo che ci saremmo seduti e...», suona una melodia ritmata, cantando in uno stile elaborato, pop blues. «"Be’, oggi è una bella giornata!”. E lui avrebbe risposto: “Davvero, proprio così”. E io:” Eddai, Kanye, dobbiamo andare a pisciare!”. O qualcosa del genere. Ma poi non è andata così. Lui ha registrato col suo iPhone e mesi dopo ho ricevuto questo...». Suona la melodia nella versione finale, più veloce, e – un’esperienza unica – esegue un’interpretazione di Rihanna, che cantava il brano. «Non sapevo neanche che fossimo in contatto con Rihanna!», dice ridacchiando. Non sono mai stato così felice di essere un giornalista. La porta del suo studio si apre. «Vanno bene altri dieci minuti?», dice la sua assistente. «Vogliamo altre cinque ore!», risponde McCartney, e la donna sparisce, mentre lui continua con «la cosa con Kayne», affascinato dal suo modo di lavorare – molto più di alcuni suoi coetanei che liquidano immediatamente con fare seccato l’hip-hop.
«Quando è nata Mary», dice, «eravamo in una clinica, io e Linda eravamo entusiasti di aver avuto quella bimba. Era la nostra prima figlia insieme. E io vidi un’immagine alla parete, Il vecchio chitarrista cieco di Picasso. Mi chiesi quale accordo stesse suonando, e lo stavo raccontando a Kanye...». Ancora con la chitarra in mano, suona l’accordo con due dita. Fischietta, suona, ed è bellissimo, e poi il motivo è remixato nella versione finale che apre il pezzo corrosivo di West All Day. È uno scarto sonico non indifferente: ma questa serenata di McCartney, davanti a un tavolino basso, in quello che è il suo studio da anni, è un’esperienza davvero avvincente – e stravagante.
Passiamo al resto del mondo. C’è una canzone di Egypt Station, People want Peace, che sarebbe stata perfetta negli ultimi album dei Beatles – oppure, ancora di più, come uno dei primi lavori di John Lennon, con il coro sulla pace e il battere ritmico delle mani nel motivo centrale. Ma questi sono tempi inquieti... «Sono ricomparse la violenza e l’arroganza», commenta McCartney. «È come quando ritornano certe mode, come sono tornati i pantaloni a zampa d’elefante. Eravamo su un percorso giudizioso, ma adesso siamo sull’oscillazione seguente del pendolo. La vita è così». Crede che il pendolo oscillerà di nuovo dall’altra parte? «Credo di sì, l’ho già visto succedere molte volte». Indica fuori dalla finestra verso la piazza affollata di impiegati che giocano a ping-pong sotto il sole. «Questa piazza era invasa dai rifiuti negli anni Settanta, quando c’è stato il grande sciopero. I cimiteri sono stati lasciati andare in rovina. Sembravamo prossimi all’Apocalisse, ma tutto è stato ripulito».Da adolescente McCartney non conosceva” il sistema”. Non aveva neanche idea che uno dovesse far domanda per iscriversi all’università. Ma non era uno portato allo studio. È sempre stato un uomo di mondo, non un esperto del mondo. Il professore dell’orientamento gli disse che aveva qualifiche sufficienti solo per fare l’insegnante. «Davvero assurdo», commenta con una risata. «Sei una merda, quindi insegna agli altri a essere una merda!». Ma per certi versi è da sempre che insegna a tutti noi: e ci insegna tutte le cose davvero importanti. «Non è mai diventato un lavoro vero e proprio», dice con un sorriso della sua insolita occupazione. Ispira simpatia il suo modo di essere sbalordito dal fatto di poter fare quel che fa. «Lo adoro. Ti siedi e c’è un buco nero da cui tiri fuori qualcosa. Piccole cose, accordi, pianeti. E poi hai qualcosa dove prima non c’era nulla». 
© THE SUNDAY TIMES CULTURE MAGAZINE